giovedì 2 aprile 2015

Psicologia del lavoro nelle organizzazioni

LA NASCITA DELLA SOGGETTIVITA’ LAVORATIVA
SOGGETTIVITA’ LAVORATIVA
In generale il concetto di soggettività indica semplicemente il modo personale che ognuno ha di vedere le cose, quindi trasferendo questo significato nel contesto lavorativo, la soggettività è il riconoscimento dell’importanza del fattore umano nel lavoro.
In particolare per Spaltro la soggettività in sé è l’insieme delle azioni e dei pensieri caratteristici di un dato individuo, che in ambito lavorativo sta a significare “l’insieme dei pallini dei singoli lavoratavi indipendentemente dai loro ruoli e livelli gerarchici”.
La storia della soggettività lavorativa risale alla fine dell’800 ed è caratterizzata dal suo rapporto conflittuale con l’oggettività.
Infatti il mondo del lavoro è dominato da valori quali: la produttività, il rendimento, l’organizzazione, che si riferiscono al concetto di razionalità e quindi oggettività.
E’ necessario, quindi, definire una soggettività che non faccia sempre ed esclusivamente riferimento all’individualità. Occorre definire tre livelli di soggettività:
soggettività di coppia, riferita all’altro diverso da me;
soggettività di gruppo (o sociale), riferita al piccolo gruppo;
soggettività collettiva, riferita a sistemi sociali definiti nello spazio e nel tempo.
La conoscenza nostra e degli altri,provoca in noi paure e resistenze poiché può portare a un cambiamento in noi e negli altri, questa situazione di paura impedisce l’intervento,determinando la considerazione degli altri come oggetti,cioè cose inanimate.In questa prospettiva la soggettività diventa oggetto di diagnosi e di intervento.Per Spaltro questo ci permette di determinare cambiamenti ed in saturare rapporti con uomini - soggetti e non su uomini - oggetti. La storia della psicologia del lavoro coincide con la storia della soggettività lavorativa.La psicologia del lavoro si afferma come scienza quando accanto ad un uomo considerato solamente in quanto homo oeconomicus compare un uomo che è anche homo psicologicus.In particolare tale psicologia ha origine in un preciso momento storico, cioè verso la fine del 1800, quando il capitalismo si andava trasformando fino all’affermazione della seconda rivoluzione industriale, fu proprio in questo periodo che nacque un interesse attorno alla soggettività       lavorativa,poiché se da un lato si potevano captare i segnali rivelatori di una nuova mentalità e soprattutto di un nuovo interesse,quello per l homo psicologicus, dall’altro ancora non emergeva nessuna preoccupazione per le conseguenze che il macchinismo industriale avrebbe potuto avere sull’uomo.
DAL CAPITALISMO LIBERALE AL CAPITALISMO MONOPOLISTICO
Alla fine del secolo XIX si assiste alla trasformazione del capitalismo: si passa dal capitalismo liberale basato sulla convergenza dell’interesse comune con l’interesse individuale, al capitalismo monopolistico, cioè delle grandi imprese.
In definitiva dalla prima rivoluzione industriale si passa a nuove forme di divisione del lavoro spezzettato dalla produzione in gran serie.
LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
La prima rivoluzione industriale ebbe inizio nel tardo 18° secolo in Inghilterra e poi si espanse in tutta l’Europa. Tale rivoluzione si sviluppa sulla serie dell’invenzione della macchina a vapore che ha caratterizzato il passaggio dalla manifattura alla fabbrica.
Dunque, l’impiego della macchina a vapore in gran parte delle industrie, era ancora agli inizi, come del resto le specializzazioni operaie. Quindi il sistema delle fabbriche era ancora in fase rudimentale tranne nella filatura del cotone e in alcune branche della metallurgia, che erano i fattori trainanti.
In questa fase il lavoro era ancora di tipo artigianale o semi – artigianale, il metodo era personale, e gli utensili semplici e tradizionali.
LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Questa fase è definita da due condizioni:
l’immigrazione di massa , che andava a formare un enorme mercato di lavoratori non qualificati;
lo sviluppo della formazione di massa che permette di realizzare il mercato con prodotti razionalmente concepiti, cioè standardizzati e a basso prezzo, utilizzando proprio la manodopera non qualificata e a buon mercato.
Un elemento che caratterizza la seconda rivoluzione industriale e che la differenzia dalla prima è uno sviluppo intenso e vario delle tecniche, cioè nasce non solo la necessità di migliorare e di inventare delle macchine in grado di sostituire i processi manuali, ma anche la necessità di creare motori in grado di azionarle.
In questa prospettiva si presentano da qui in vanti problemi scientifici, ovvero si afferma una cultura scientifica in grado di sostituire nelle invenzioni delle macchine, con veri e propri ingegneri.
Si hanno cambiamenti anche riguardo alle risorse umane e il loro rapporto con il capitalismo.
Infatti, come sostiene Friedman: nel corso della prima rivoluzione l’atteggiamento del padronato nei confronti della manodopera era stato caratterizzato da una forte indifferenza attraverso cui si attingeva alla manodopera maschile, femminile e infantile senza preoccuparsi del suo deperimento.
Verso la fine del secolo, invece, sorge la preoccupazione di economizzare le risorse umane che si scoprono limitate. Afferma Cole che ci si rende conto che la manodopera non è inesauribile ed è cara , tanto che gli operai si organizzano sia per difendere il loro valore sul mercato del lavoro, sia per ottenere le garanzie elementari dell’igiene. Si delinea così una legislazione sociale.

2. LO SCIENTIFIC MANAGEMENT
I primi accenni al problema del lavoro scomposto e parcellettato si trovano già in Adam Smith, il quale accusava i suoi contemporanei di fare abuso di questa forma di divisione del lavoro che in realtà nascondeva il pericolo di un “incretinimento” dei soggetti che si trovano in condizione di dover ripetere giorno dopo giorno gli stessi gesti e le stesse operazioni.
Sulla stessa linea critica si è schierato Sismondi, sottolineando la “perdita della serenità” accusata dall’uomo moderno  con il progredire della divisione del lavoro.
La routine aggrediva l’operaio schiavizzandolo e riducendo la sua volontà.
Anche Marx ed Engels vedevano il futuro operaio una vittima del meccanismo spietato che avrebbe annientato la propria dignità e indipendenza di uomo.
Con il passar degli anni molti psicotecnici tentarono di dare risposta alle questioni sollevate rispetto al problema frazionamento – ripetitività del lavoro.
Nel 1929, ad esempio, Hans Rupp proponeva di rendere visibile all’operaio, il lavoro finito, in modo da fornirgli la misura di ciò che il suo compito rappresentava dal punto di vista produttivo. Era necessario che l’operaio avesse uno stile per proseguire nel suo compito o che perlomeno ne avesse l’impressione. Questi accorgimenti però non contribuirono a risolvere il problema.
Interessanti osservazioni per valutare queste difficoltà nel contesto lavorativo , furono realizzate da Wyatt, Fraser e Stock, che osservarono in una fabbrica di confetti, 12 ragazze addette ad operazioni non meccanizzate, quali: la confezione, l’imballaggio, la pesatura della merce, con particolare riferimento al rendimento e al ritmo delle operazioni.
Si svolgeranno due compiti ugualmente monotoni: uno l’imballaggio e la confezione; l’altro consisteva nello scartare a mano confetti già imballati dalla macchina in modo sbagliato, rifacendo quindi il lavoro.
Tale studio dimostrò che nel corso del primo tipo di operazione il lavoro procedeva speditamente e si registravano rendimenti alti, nel secondo caso, invece, il ritmo era assai più lento e le operaie manifestavano sofferenza. Si notò che le operaie non erano tanto afflitte per la ripetitività del lavoro, quanto per il ruolo che investivano all’interno del circuito produttivo, cioè anche se erano disposte a ripetere all’infinito le stesse operazioni, non accettavano di vedersi alla stregua delle macchine i cui errori dovevano recuperare.
Wunderlich (1919) tentò di indicare le caratteristiche della personalità di un soggetto che potrebbe essere idoneo al lavoro ripetitivo. In particolare tre diversi tipologie:
soggetti la cui necessità era quelle di restare completamente assorbiti dal proprio lavoro: in caso contrario manifestavano sofferenza e noia;
soggetti che avevano dichiaratamente scelto un lavoro di routine perché pensavano che la sua ripetitività potesse concedere loro momenti di distrazione; però si resero conto successivamente di non sopportate questo tipo di lavoro e se ne sentivano prigionieri;
soggetti che scelsero il compito di routine senza pentirsi di tale scelta perché un lavoro automatizzato concedeva loro lo spazio di cui avevano bisogno, quindi si potevano definire idonei alla routine, supportata con facilità.
Inoltre Wunderlich poté concludere osservando che : il non coinvolgimento è un elemento importante per i lavoratori della catena solo se essi non nutrivano ambizioni, non sentivano il bisogno di progredire, quindi, i poco intelligenti. Secondo Friedman, invece, uno degli effetti della routine è la rassegnazione degli operai ai simili compiti.
L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO DI TAYLOR
Nel periodo storico compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e i primi decenni del 900 si manifestavano nel settore industriale, nuove tendenze quali, il bisogno di associazione e di organizzazione. Si realizza così il capitalismo monopolistico dominato da Pool, Trust e Corner.
Nel 1880 l’American Society of Mechanical Engineers (ASME) sorgeva per cercare di dare risposte alle nuove esigenze del lavoro.
Tra i collaboratori vi era Taylor che poneva a fondamento delle sue teorie l’esperienza diretta di semplice operaio per divenire poi un brillante ingegnere. Egli individuò 2 fattori dominanti nel contesto organizzativo:
difformità nello sviluppo dell’organizzazione: cioè le aziende si erano sviluppate grazie a uomini che, partiti dalle posizioni più umili, avevano raggiunto posizioni direttive all’interno delle aziende;
mancanza di un rapporto tra organizzazioni e utili aziendali (guadagni): cioè non sempre una buona organizzazione produceva guadagno per le aziende.
Secondo Taylor queste condizioni si creavano perché vi erano esigenze diverse tra lavoratori e datori di lavoro: i lavoratori chiedevano salari più alti; mentre i datori un basso costo della manodopera.
Quindi per soddisfare entrambe le esigenze era necessario, secondo Taylor, una rivoluzione dell’operaio stesso, cioè inserendolo in una condizione dove poter svolgere una grande quantità di lavoro e accedere ad un grado di primordine ricevendo così un salario più alto e favorendo la produttività dell’azienda.
A tal proposito Taylor diede grande rilievo al metodo concepito da Towne e Halsey, che consisteva nella  registrazione della quantità di lavoro in un determinato tempo limite. Al lavoratore che riusciva a svolgere il lavoro in tempi più brevi veniva pagato un salario ordinario con in più un premio calcolato in base alla differenza tra il salario guadagnato e quello ordinario.
Questo metodo portò molti stabilimenti a raggiungere salari più alti e minor costo della manodopera, realizzando anche quello che aveva auspicato Taylor, cioè la relazioni all’interno delle aziende tra lavoratori e datori di lavoro.
Significativi sono gli studi compiuti alla Bethlehm Steel Corporation (BSC) sul trasporto dei materiali grezzi, trasportati da squadre. I manovali erano pagati secondo categoria, tuttavia, potevano essere premiati secondo categoria superiore con salario più elevato. La tecnica utilizzata era quella di scomporre e frazionare il lavoro e questo contribuì alla riuscita dell’esperimento.
Infatti, secondo Taylor due fattori hanno contribuito al successo:
i lavoratori ricevevano ogni mattino un talloncino dove indicare la quantità di lavoro svolto il giorno precedente  e l’importo guadagnato: in tal modo il lavoratore poteva costatare direttamente il risultato della propria prestazione lavorativa;
ciascun operaio misura la propria produzione.
Da qui si osservò che il cottimo individuale era preferibile al cottimo a squadra.
Taylor riteneva quindi che fosse necessaria una parcellizzazione del lavoro che permettesse di definire uomini capaci al posto adatto per la produttività dell’azienda. Egli mettendo a confronto i metodi di organizzazione antiquati con quelli moderni, poté definire una nuova “organizzazione scientifica del lavoro”  basata su determinati principi, quali:
compito giornaliero, ossia a ogni operaio veniva ogni giorno affidato un lavoro definito;
condizioni standardizzate, che venivano imposte agli operai per metterli in grado di portare a termine il loro compito;
alta paga (in caso di riuscita del compito);
perdita (in caso di insuccesso).
 l’ unico interesse di Taylor in quel periodo era di attuare delle strategie di programmazione che garantivano dei vantaggi all’impresa.
Il benessere del lavoratore,nella sua eccezione più ampia ,era posto come obiettivo soltando dopo le grandi questioni economiche,infatti, il concretizzarsi di una società nella quale i bisogni dei padroni si sarebbero congiunti con quelli degli operai e nella quale gli sforzi di entrambi si sarebbero congiunti era sicuramente un fatto auspicabile.
Taylor rimase sempre lontano dalla prospettiva di un reale approfondimento psicologico dei problemi dell uomo applicato al lavoro. È lecito per questo chiedersi se Taylor dette davvero impulso al miglioramento delle condizioni lavorative nell’industria o fu soltanto l’inventore di un nuovo strumento di sfruttamento.
Si potrebbe considerarlo come un innovatore in buona fede,in quanto egli tentò davvero di creare i presupposti per una rivalutazione della condizione umana negli ambienti industriali. Certamente non gli mancò l’entusiasmo nella fase di realizzazione dei propri progetti. I presupposti del taylorismo inizialmente erano infatti quelli di rendere l’uomo consapevole delle proprie capacità,di collocarlo successivamente in una posizione che lo rendesse in grado di sfruttare al massimo,incentivando la sua disponibilità mediante emolumenti di varia entità e portata.
ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO O SCIENTIFIC MANAGMENT
La nascita dell’organizzazione del lavoro si basa su 3 motivi:
TECNICO: l’industria, ampliando le sue dimensioni, richiede per una sua più funzionale organizzazione, un parziale decentramento dei compiti direttivi, di coordinamento delle fasi del processo produttivo e di controllo sulle nuove tecnologie di fabbrica. L’ingegnere e il tecnico assumono una rilevanza mai riscontrata prima. Quindi da una parte l’imprenditore cede una porzione del suo potere a gruppi tecnici; dall’altra gli operai, attraverso regole scientifiche, vedono la perdita totale della possibilità di decidere sui modi di procedere del proprio lavoro. Infatti, secondo i principi dell’organizzazione scientifica, per ogni compito lavorativo devono essere formulate prescrizioni che “significano non solo quello che si dovrà fare ma anche come dovrà essere fatto, stabilendo esattamente il tempo assegnato per l’esecuzione”.
ECONOMICO: negli ultimi decenni dell’800, la necessità di rispondere in maniera più aggressiva alla concorrenza nazionale ed internazionale, imponeva una riduzione dei costi, attraverso un deciso incremento della produttività. A tal fine si attuarono concentrazioni di imprese e si iniziò a introdurre una nuova scienza organizzativa che troverà, negli anni 90, una più vasta applicazione.
IDEOLOGICO: l’aspetto ideologico del nuovo sistema è espresso molto bene sia da Ford che da Taylor:
Ford affermava che le chiavi del lavoro sono: dividere e suddividere il lavoro, tenerlo in movimento e per applicare ciò è necessaria la riduzione di pensiero da parte degli operai a eliminazione di ogni loro movimento superfluo.
Taylor affermava che il sistema organizzativo si basa su una rigida frattura fra manualità e intellettualità, dove il lavoro umano è imposto e regolato dai tecnici; è di tipo uniforme e ripetitivo a servizio della macchina o strumento di lavoro (gli operai sono pagati per lavorare e non per pensare: c’è qualcun altro che è pagato per questo). Questa divisione viene accettata soprattutto attraverso gratificazioni e stimoli economici nei confronti degli operai. Infatti per Taylor, uno stabilimento, che intende perseguire un’organizzazione razionale, deve prevedere 4 sistemi (o forme di retribuzione e gratificazione):
lavoro a giornata
lavoro a cottimo
cottimo con premio
cottimo a tariffa differenziata
In realtà attraverso questi 4 sistemi si cerca di controllare la forza-lavoro e grazie all’introduzione di metodi scientifici di lavoro e di calcolo della remunerazione si arriva perfino all’ingenua illusione dell’abolizione del conflitto di classe.
Infatti, secondo Taylor, il primo obiettivo è quello di far comprendere agli operai che il nuovo sistema trasforma i datori di lavoro in “amici” che lavorano al loro fianco con il massimo impegno possibile, per gli stessi scopi: “realizzare cioè un aumento di produzione che riduce i costi, in misura totale da poter pagare gli operai dal 30% al 100% in più di quanto guadagnavano in passato pur assicurando all’azienda dei buoni profitti”.
Le incentivazioni nei confronti dei lavoratori erano esclusivamente economiche e questo minacciava ancora di più le condizioni lavorative. Infatti, gli operai attratti da una remunerazione più elevata continuavano ad assoggettarsi ad un tecnicismo spietato che portò al termine uomo-bue per rappresentare il super-operaio taylorista che come un animale (bue) non doveva pensare con la sola prospettiva di aumentare il proprio benessere.
IL SUPERAMENTO DELLO SCIENTIFIC MANAGMENT
Le teorie dello Scientific Managment di Taylor portarono alla nascita di una nuova figura professionale il manager, le cui funzioni rispondevano alle esigenze organizzative, amministrative e tecniche.
Però l’applicazione delle nuove metodologie della psicologia del lavoro ha avuto un effetto estraniante sull’uomo: non è stato considerato il concetto di “qualità” che spinge l’uomo alla motivazione, non era stato attribuito giusto rilievo alla sua creatività in termini di produttività.
Le conseguenze psicologiche dello scientific managment rappresentano il più grande limite del taylor-fordismo, cioè l’estraniazione del lavoro e dal lavoro. Il lavoro viene visto come un “male” e il lavoratore si adatta attraverso il disinteresse al lavoro stesso.
le teorie dello scientific management fu fortemente criticato a partire dalla contestazione
delle società ferroviarie nel 1911, successivamente Taylor ebbe importanti controversie con i sindacati statunitensi che portarono i rapporti ad essere sempre più tesi fino allo sciopero dell’ arsenale di Watertown. Il primo conflitto mondiale permise l applicazione dello scientific management, ma nonostante ciò i limiti di tale sistema cominciarono ad evidenziarsi sempre di più fino alla sostituzione col New Deal roosveltiano dopo la crisi del 1929

3. A SCOPERTA DELLA NATURA SOCIALE DEL LAVORO
In opposizione alle teorie e ai metodi dell’organizzazione scientifica furono avanzate ipotesi nuove dove viene affermata l’importanza del fattore umano in qualsiasi organizzazione produttiva.
Tali ipotesi hanno dato vita a quel movimento noto col nome di Human Relation il cui portavoce più  illustre fu Elton Mayo ( psicologo australiano nato nel 1880 e morto nel 1949).
Il grande contributo  di Mayo è stato quello di aver “rivalutato l’elemento umano nell’ambiente industriale” attraverso il rigore scientifico, allo scopo di salvaguardare l’integrità psichica e fisica del lavoratore, messa in pericolo, dal razionalismo individualistico dei seguaci di Taylor.   
Bisogna dire che prima degli studi di Mayo, vari studiosi avevano effettuato studi e ricerche nell’ambito della psicologia industriale e sociale.
Tali studi ebbero come punto principale la “fatica fisica” e la “fatica psicologica” chiamata poi monotonia, ed emerse che la “fatica non è uguale per tutti e le risposte all’affaticamento e al il ritmo dello stesso lavoro è differente per le diverse persone”. Così, si constata che la noia sul lavoro è massima quando bisogna effettuare un lavoro particolarmente ripetitivo e al tempo stesso non consente distrazioni; al contrario la noia può essere evitata quando il lavoro è ricco di significato e di responsabilità.
Mayo fece tesoro di questi suggerimenti e infatti riportò  un grande successo nelle sue proposte. Intorno ad Helton Mayo nacque anche un gruppo di ricercatori che venne identificato con il nome di Scuola Delle Relazioni Umane, che si basa sui cosiddetti esperimenti di Hawthorne  (azienda in cui vennero fatti gli esperimenti).        
In particolare la teoria di Mayo si rifà a 3 esperimenti:
il primo riguarda il montaggio dei relè telefonici e lo scopo di questa indagine era quello di verificare:
se la produttività veniva influenzata da fattori economici e materiali o da fattori psicologici;
come poteva essere il lavoratore in gruppo e se poteva avere buoni rapporti con i superiori.
Venne costituito un gruppo di 5 ragazze, che fu separato dall’attività normale della fabbrica e tale gruppo doveva effettuare solo l’operazione del montaggio dei relè telefonici. Il lavoro, quindi, era molto semplice e molto misurabile. Al gruppo di lavoro si aggiunse un osservatore fisso (era un delegato della direzione e non un componente del gruppo di ricerca) che per tutto il periodo dell’esperimento ebbe il compito di osservare ma anche di facilitare i rapporti all’interno del gruppo e tra il gruppo e la direzione aziendale.
La sperimentazione ebbe la durata di due anni, nel corso dei quali furono introdotte delle modificazioni, quali:
la riduzione complessiva dell’orario
introduzione di una pausa lavorativa e dei premi
possibilità di effettuare una rapida colazione
illuminazione dell’ambiente lavorativo
I risultati furono che la produzione aumentò fin dall’inizio e continuò sempre a crescere e secondo Mayo questo si verificò perché:
l’aumento del rendimento operaio dipende soprattutto dall’instaurarsi di rapporti amichevoli e positivi;
i buoni risultati derivano dalle pause di riposo, proprio perché la produzione aumenta sempre dopo la pausa;
l’incentivo economico non ha una grande rilevanza.
Quindi Mayo notò che il rendimento operaio dipende soprattutto dalla capacità di instaurare nel gruppo e tra il gruppo e l’azienda dei buoni rapporti.          
Il secondo esperimento (o ricerca) riguarda il programma di intervista. In seguito alla ricerca fu avviato un programma di lavoro che potesse migliorare il clima sociale in fabbrica. Tale programma prevedeva la somministrazione di una serie di interviste. Lo scopo di tali interviste non era solo quello di raccogliere dati e informazioni , bensì, di consentire agli operai di poter esprimere più o meno liberamente le loro opinioni sul lavoro in fabbrica, sul rapporto con i colleghi e con i superiori e segnalare eventuali problemi da risolvere. Secondo Mayo tutto ciò servì a migliorare il clima lavorativo e i rapporti, oltre ad avere una migliore conoscenza dei propri dipendenti da pare della direzione aziendale.   
Il terzo esperimento riguarda l’analisi del gruppo del monitoraggio dei quadri telefonici: i ricercatori in questo terzo lavoro si concentravano maggiormente sulla funzione del fattore umano nella produttività umana. Anche in questo caso viene allestita una sala di osservazione e in essa vengono fatti lavorare 14 operai, staccati dalla normale linea di lavoro e addetti la montaggio dei quadri telefonici. L’ipotesi  di partenza era legata alla teoria di Taylor: gli uomini e gli operai tendono per natura a lavorare meno di quanto potrebbero ed è, quindi, compito del dirigente trovare il modo di farli lavorare con  un ritmo più elevato, fissando delle norme. Il gruppo di ricerca, nel corso dell’esperimento, trovò conferme nelle teoria di Taylor, però, affermò che otre alle norme formali emanate dal dirigente, vi sono anche norme informali. In pratica, nel gruppo di lavoro alcune norme sono elaborate dal gruppo stesso e vanno ad influenzare i rapporti e possono essere differenti dalle norme formali (ufficiali). Mayo notò, quindi, che per migliorare la produttività bisognava intervenire non solo sulle norme ufficiali ma anche sui rapporti informali mediante osservatori oppure capisquadra che sappiano sfruttare i rapporti informali o personali.
Le Human Relation, che incentivarono lo studio sui gruppi e sul loro funzionamento,  furono definite con il nome di “Taylorismo dal volto umano” ma non riuscirono mai a superare l’impianto organizzativo creato dallo Scientific Managment.
Questo perché non tutti i capi erano disposti a rinunciare al desiderio di comandare e favorire, invece, la produttività di gruppo.

4.LO SVILUPPO ORGANIZZATIVO
In tale contesto si afferma anche la Teoria Sistematica che “inserisce il fattore umano come uno degli elementi che interagisce nel definire le caratteristiche e il funzionamento dell’organizzazione”. (Si contrappone a Taylor che enfatizzava l’organizzazione a scapito del fattore umano).
La teoria sistematica è una derivazione della teoria generale dei sistemi, nata nella seconda metà del secolo scorso, e la cui paternità è riconosciuta al biologo Bertalanfy, il quale ha il merito di aver individuato che “ogni entità studiata può essere ricondotta al concetto di sistema e più precisamente di sistema aperto”.
Il sistema aperto è un insieme di oggetti o elementi in relazione tra di loro ed è aperto perché interagisce con l’ambiente esterno. Di conseguenza, secondo la prospettiva sistematica anche l’organizzazione è la modalità secondo la quale gli organismi viventi formano un complesso unitario, composto da diversi sottosistemi (organi) che interagiscono tra loro.
L’organizzazione a sua volta è un sottosistema di un  sistema più grande che è il sistema sociale.
Quindi la teoria sistemica ha evidenziato il fatto che le organizzazioni non sono entità isolate ma sono inserite in un ambiente dinamico con il quale e nel quale hanno rapporti di scambio tra loro.
Infatti il rapporto di interdipendenza con l’ambiente consente la sopravvivenza dell’organizzazione, in quanto il suo successo è dato dalla capacità di adeguarsi ai cambiamenti esterni.
Tutti i sottosistemi che compongono il sistema hanno lo stesso scopo, cioè quello di realizzare l’obiettivo globale (Rice chiama Primary Task: compito primario) dell’organizzazione che permette la sua sopravvivenza.
L’organizzazione secondo la prospettiva sistemica è la modalità secondo la quale gli organismi viventi formano un complesso unitario composto da diversi organi tra loro interagenti.
Per fare questo i sottosistemi interagiscono con il loro ambiente attraverso meccanismi di imput (immissione) che permettono di trasformare alcuna risorse; e attraverso meccanismi di autput (emissione), cioè gli elementi trasformati diventano obiettivi di un altro sistema.
Ciò dimostra che i sottosistemi non interagiscono in modo causale, ma seguono una logica per realizzare l’obiettivo primario dell’organizzazione.
Secondo Schein i punti fondamentali dell’analisi sistematica sono:
le organizzazioni sono sistemi aperti in continua interazione con l’ambiente;
l’organizzazione è dotata di una molteplicità di scopi e funzioni che implicano a loro volta molteplici interazioni con l’ambiente;
l’organizzazione è composta da diversi sottosistemi anche essi in relazione tra loro;
l’organizzazione esiste in un ambiente a sua volta dinamico, composto da altri sistemi a da questo ambiente provengono alcune esigenze e limitazioni per il funzionamento dell’organizzazione;
i legami tra organizzazione e ambiente rendono difficile l’individuazione dei loro confini, per cui è preferibile parlare di processi di imput e autput.
LE ORGANIZZAZIONI COME SISTEMI SOCIO-TECNICI
L’analisi sistematica ha indicato l’organizzazione come un insieme di sottosistemi, ognuno dei quali ha un suo compito.
Un modo per evidenziare i sottosistemi è individuarli in base alle funzioni che essi svolgono nell’organizzazione. Katz e Kahn propongono una suddivisione funzionale dei sotto sistemi di questo tipo:
sottosistema di produzione che si occupa della trasformazione di imput e output ;
sottosistema di mantenimento che si occupa di equilibrare le diverse esigenze di compito e le necessità umane al fine di mantenere in funzione il sistema;
sottosistema adattivo che ha il compito di sondare i cambiamenti provenienti dall’esterno dell’organizzazione;
sottosistema di confine che ha il compito di gestire l’area intermedia tra l’organizzazione e l’ambiente.
French e Bell propongono la suddivisione in questo modo:
sottosistema di obiettivi che consiste nell’insieme di obiettivi dell’organizzazione;
sottosistema di compiti che s interessa della divisione del lavoro tra i membri dell’organizzazione;
sottosistema strutturale che comprende le regole di lavoro;
sottosistema umano-sociale composto da capacità e abilità dei membri, lo stile di direzione,il sottosistema formale ed informale;
sottosistema dei rapporti faccia a faccia con l’esterno che si occupa della raccolta dei dati, reperimento di risorse,ecc.
Molti studiosi hanno proposto una suddivisione funzionale dei sottosistemi e la distinzione più famosa è quella proposta da Trist attraverso il concetto di sistema socio-tecnico. Secondo Trist le organizzazioni sono individuabili in base all’interazione di:
variabili tecnologiche (impianti, processi di lavoro, informazioni)
variabili sociali (rapporti e relazioni tra persone)
Il sottosistema tecnologico e quello sociale sono fortemente interdipendenti, quindi una modifica di uno dei due produce effetti sull’altro e viceversa.
Di conseguenza, secondo l’analisi socio-tecnica, si ottiene un’organizzazione efficiente ricercando le combinazioni ottimali tra i due sottosistemi, evitando di considerali separatamente ma osservando gli effetti che le variazioni di un sistema producono sull’altro.
CHE COS’E’ L’ORGANIZATION DEVELOPMENT
Le fondamenta dell’organization Development (sviluppo organizzativo) le ritroviamo negli studi di Mayo e nel contributo di Lewin.
Essa nacque e si sviluppò negli anni ‘60 in un clima di mutamenti sociali, economici e tecnologici ed è un indirizzo di ricerca che si prefigge l’obiettivo di conciliare gli indiscutibili bisogni dell’uomo con il raggiungimento della massima efficienza organizzativa.
In altre parole lo sviluppo organizzativo rappresenta un processo di cambiamento e di adattamento continuo da com’è verso come dovrebbe essere un’organizzazione.
Secondo Mc Gregor  c è la necessità di una nuova filosofia organizzativa basata sulla rivalutazione della creatività e della potenzialità dell’individuo,sull’autodirezione e sull’autocontrollo elementi che possono essere chiariti cola la teoria X  e l’altra teoria Y.
La teoria X si basa su un triplice assunto:
la direzione è responsabile dell’organizzazione degli elementi dell’impresa produttiva,compreso il fattore umano;
le persone vanno dirette e controllate per adattare il loro comportamento alla necessità dell’organizzazione;
 senza l’intervento diretto le persone rimarrebbero passive.
La teoria Y può essere ricompressa nelle seguenti affermazioni:
La direzione è responsabile degli elementi dell’impresa produttiva nell’interesse dei fini economici;
La passività delle persone non è innata , ma è una conseguenza delle esperienze avute all’interno delle organizzazioni;
La motivazione,la capacità di assumersi responsabilità,il potenziale di sviluppo sono presenti negli individui;
Il compito della direzione è quello di permettere che esse vengano comprese e sviluppate autonomamente attraverso il coordinamento dell’organizzazione.
Seguendo la teoria X ne deriva l’esigenza di controllare autoriatariamente,in quanto gli obiettivi degli individui sono in contrapposizione con quelle aziendali; mentre seguendo la teoria Y si può adottare una conduzione aziendale per obiettivi e ricercare l’integrazione tra bisogni individuali ed esigenze dell’organizzazione.
Le radici dell’OD si possono individuare proprio tra queste formulazioni teoriche, che tentano di risolvere il problema dell’integrazione tra individuo e organizzazione.
L’organization Development cerca di stimolare la crescita di strutture organizzative flessibili, capaci di adeguarsi alle diverse circostanze.
Lo scopo è quello di trovare per ogni specifica organizzazione la combinazione più efficace di caratteristiche organiche e meccaniche. Infatti, esso cerca di mettere in pratica alcuni obiettivi, quali:
il miglioramento dei rapporti interpersonali
la riduzione delle tensioni nei gruppi di lavoro
lo sviluppo di nuove tecniche di risoluzione dei conflitti
Tale contributo, però, pone un’ enfasi eccessiva sui cambiamenti provenienti dall’esterno, piuttosto che su quelli interni.
Quindi le organizzazioni appaiono, secondo tale prospettiva, in balia di ciò che accade al di fuori di esse. La flessibilità è l’unica componente decisiva.

5 LA CULTURA ORGANIZZATIVA
9 LA LEADERSHIP
La cultura è strettamente connessa con la presenza umana nell’organizzazione,essendo il prodotto di idee,pensieri,valori di persone che ne hanno fatto parte in passato e continuano a operare nel presente.
Il processo di apprendimento è lungo e complesso. Molti aspetti del comportamento degli individui all’interno delle strutture appaiono di difficile comprensione se non inquadri in uno schema collettivo,in una sorta di modello comune ai membri del gruppo,ma solo a quella determinata organizzazione possiamo dunque definire la cultura come una sorta di ossatura che consente agli individui o al gruppo stesso di rappresentare e rappresentarsi i problemi,le situazioni,i contesti,insomma tutti gli aspetti della vita organizzativa sia interna che esterna.
Il modello giapponese del Totale Qualità Management hanno avuto un ruolo determinante nella diffusione del concetto di cultura organizzativa,le ragioni di tale successo vanno ricercate nel modo diverso di concepire e vivere il lavoro da parte dei dipendenti.
In Giappone,primeggiano valori legati alla tradizione e alla solidarietà, mentre, nelle nazioni occidentali prevale una cultura individualista e competitiva.
La cultura organizzativa permette di chiarire le motivazioni che stanno alla base dei comportamenti,ciò significa rendere evidenti quei fenomeni che a prima vista possono apparire oscuri e a volte persino irrazionali,ma che determinano la qualità e l’essenza stessa dell’unità organizzativa.
Jaques è tra i primi studiosi a occuparsi di cultura organizzativa trattando le conoscenze,le attitudini, i valori evidenziando l’importanza dei processi di socializzazione e gli effetti dei cambiamenti di cultura sulla personalità degli individui, in particolare dimostra come la cultura sia un potenziale di sistema di controllo sui comportamenti.
Esiste un’intrinseca difficoltà a fornire una spiegazione del fenomeno “cultura”che pur manifestandosi negli aspetti fisici e simbolici dell’azione organizzativa,non è però qualificabile solo come aspetto tangibile di essa.
La metafore,sostiene Smircich è un aspetto fondamentale del pensiero umano:è un modo attraverso cui riusciamo a conoscere il nostro mondo. Per Koch e Deetz percezioni e conoscenza sono legate in un processo interpretativo che è strutturato metaforicamente. Gli studiosi e gli stessi attori organizzatovi usano una varietà di metafore e immagini per limitare,incorniciare e differenziare la complessità di alcuni aspetti dell’organizzazione.
L’uso di particolari metafore spesso non è una scelta consapevole,né esplicita ,ma può essere suggerita dal tipo di approccio al concetto di organizzazione, anche perché lo stesso termine organizzazione è una metafora riferita all’esperienza di coordinamento collettivo e ordine.
La cultura organizzativa si caratterizza per l’ articolazione a più livelli: il livello degli artefatti,quello dei valori e infine quello degli assunti di base.
Il livello più superficiale è composto dalle manifestazioni visibili della cultura,l’architettura dell’organizzazione,la tecnologia, il modo di vestire,la disposizione degli uffici, i modelli comportamentali. Tali espressioni vengono definite da Schein artefatti perché facili da individuare ma non da interpretare,esse ci consentono di descrivere il fenomeno culturale, ma non aiutano la comprensione delle motivazioni profonde dei comportamenti organizzativi.
Il livello intermedio è rappresentato dai valori che esprimono una buona consapevolezza culturale, ma non spiegano in maniera esauriente che cosa la cultura sia. Spesso i membri del gruppo attribuiscono ai valori una funzione normativa,utilizzandoli come un modello di comportamento desiderato,altre volte vengono usate per dare spiegazioni a dei comportamenti.
Gli assunti di base sono inconsci non nel significato freudiano del termine,semplicemente non sono direttamente accessibili vengono dedotti attraverso le loro espressioni visibili.
Le logiche di azione del comportamento organizzativo sono gli assunti culturali di base, che sintetizzano le risposte apprese in quel gruppo o che sono stati ritenuti più efficaci per risolvere una categoria di problemi.
L’insieme degli assunti di base di un ‘organizzazione è definito da Schein paradigma culturale che è un insieme di assunti interrelati che formano un modello coerente.
La coerenza paradigmatica è una qualità delle organizzazioni che hanno una cultura forte,cioè che hanno sviluppato uno schema di assunti tra di loro articolato in modo armonico,diversamente, l’assenza o il disordine degli assunti di base sono propri di culture non ancora completamente formate o comunque sono indice di una conflittualità fra più culture.
LE FUNZIONI DELLA CULTURA
Il processo di apprendimento della cultura inizia quando l’unità organizzativa nell’affrontare il sistema esterno adotta delle soluzioni che proprio perché vincenti vengono ripetute e confermate ed entrano a far parte integrante della cultura stessa. L’ambiente esterno limita le organizzazioni nella scelta delle soluzioni da adottare e ,inoltre, non tutte le possibili soluzioni avranno lo stesso effetto su gruppi diversi,poiché anche le caratteristiche interne del gruppo sono determinanti nella scelta delle soluzioni da adottare per risolvere i problemi di adattamento esterno.
L’interazione interna rappresenta il modo in cui i membri del gruppo e i loro leader organizzano le reti di relazioni per garantirsi prestazioni efficienti,stabili e continue. Questo avviene tramite un sistema di comunicazione,un linguaggio comune e comuni categorie concettuali che permettono ai membri di comprendersi tra loro, alcuni metodi per definire quali sono i confini del gruppo e i criteri di appartenenza al gruppo.
Le organizzazioni quindi si affidano alla cultura per affrontare le due problematiche( integrazione interna e adattamento esterno) tra loro interdipendenti  e interconnesse,che risultano essere cruciali per la sopravvivenza. la cultura permette di concentrare l’attenzione solo su quelle percezioni che riguardano lo specifico ambiente,offrendo stabilità e permettendo agli individui di rilassarsi. È un processo di apprendimento che promuove quelle risolse che permettono di raggiungere determinati obiettivi e che contribuisce alla costruzione della cultura organizzativa. Le risposte apprese saranno quelle che favoriranno l’adozione di comportamenti tesi al contenimento e alla riduzione di situazioni ansiogene.
 Una cultura organizzativa è composta infatti sia da elementi destinati a risolvere i problemi concreti, sia da elementi destinati a ridurre l’ansia. Le componenti culturali che si fondano sulla riduzione sono più stabili rispetto a quelle che si basano sulla soluzione di problemi concreti, sia per la natura stessa dei sistemi di riduzione dell’ansia, sia perché i sistemi umani hanno bisogno di un certo grado di stabilità per evitare l’ansia. Se tratta di modificare un meccanismo di riduzione dell’ansia, è quindi necessario prima di trovare l’origine dell’ansia. La riduzione dell’incertezza, la soddisfazione del bisogno di coerenza dei membri, la stimolazione del senso di appartenenza, la solidarietà con obiettivi comuni attribuiscono alla cultura un valore strumentale. La cultura  può essere intesa come un processo di controllo informale attuato non attraverso l’ imposizione di regole o norme imperative, ma tramite l’apprendimento organizzativo di elaborazione che, pur essendo collegate a un determinato momento temporale e ambientale, assumono una propria connotazione e autonomia. Se è più facile riscontrare culture unitarie durante la fase di fondazione delle organizzazioni, è anche vero che al crescere della dimensione è più probabile la formazione di gruppi che si distinguono per condividere dimensioni culturali proprie.
 LE ESPRESSIONI DELLA CULTURA : SIMBOLI, VALORI E MITI
I SIMBOLI: si affermano come uno strumento importante per la trasmissione della cultura, proprio perché facilmente interpretabili. Infatti, può essere considerato simbolico tutto quello che ha la capacità di caratterizzare in maniera specifica la vita dell’organizzazione.
I VALORI: riflettono una determinata cultura aziendale. L’adesione ad un modello valoriale consente alle persone che lavorano nell’organizzazione di realizzare un comportamento che privilegia non solo obiettivi di tipo quantitativo,ma soprattutto una strategia unificante e condivisa da tutti al di là degli interessi personali.
L’IDEOLOGIA:si ha quando un insieme di valori,assume un linguaggio specifico e distinto, diventa un’ideologia. L’ ideologia,serve sia come chiave di comprensione,sia come guida per realizzare nel migliore dei modi i cambiamenti desiderati.

TIPI DI CULTURA ORGANIZZATIVA
Ebers ha individuo 4 tipi ideali di cultura:
cultura organizzativa legittima: trae valori e norma dall’ambiente di riferimento;
cultura organizzativa efficiente: è orientata all’obiettivo cioè al raggiungimento dei risultati;
cultura organizzativa tradizionale: è basata sull’affiliazione tra i membri,condivisione di significati profondi,fiducia reciproca;
cultura organizzativa utilitaristica: basato non tanto sulla condivisione de valori comuni, ma soprattutto sul conseguimento d’interessi, sulla negoziazione tra contributo dato e ricompensa ottenuta.
CAMBIAMENTO CULTURA E CONTINUITà
Nel dibattito sul cambiamento culturale delle organizzazioni,ci sono due posizioni estreme:da un lato i pragmatici che ritengono che le organizzazioni possano,anzi debbano cambiare,ma soprattutto che possano essere guidate nel cambiamento; dall’ altro ci sono puristi secondo cui le culture organizzative non cambiano ma evolvono e di conseguenza il cambiamento non si può gestire.
Le organizzazioni si distinguono fra loro poiché assumono proprie fisionomie culturali che non rimangono immutate nel corso del tempo ma che variano,pur con resistenze a volte notevoli,al verificarsi di eventi sia di tipo esterno che interno.
Ma solo i cambiamenti di grande portata plasmano la cultura,anzi molto spesso si parla di evoluzione naturale proprio per indicare quel processo lento e invisibile che promuove gli assunti dimostrano di funzionare meglio e che quindi vengano trasmessi anche ai nuovi membri del gruppo.
La cultura, è frutto di un apprendimento e può rappresentare ,a seconda dello stadio evolutivo dell’organizzazione ,sia una garanzia di stabilità e continuità nonché di flessibilità ed efficacia, sia un vero e proprio ostacolo ed impedimento al cambiamento che è indispensabile per la sopravvivenza della stessa organizzazione,perché il cambiamento indica l’adattamento all’ambiente esterno.
Gagliardi sostiene che l’organizzazione deve cambiare l’identità per sopravvivere ,dove l’identità organizzativa è lo stile distintivo dell’organizzazione, ovvero abilità a svolgere un particolare compito.
La cultura appresa tramite esperienze positive da un lato genera coesione e rafforza l’identità organizzativa,dall’altro suggerisce una tendenza alla continuità culturale che induce a interpretare il cambiamento spontaneo e l’adattabilità delle organizzazioni come manifestazioni di una strategia primaria in mantenimento dell’identità organizzativa,dall’altro suggerisce una tendenza alla continuità culturale che induce a interpretare il cambiamento spontaneo e l’adattabilità delle organizzazione come manifestazioni di una strategia primaria di mantenimento dell’identità dell’organizzazione.
Il cambiamento è dunque un adattamento all’ambiente esterno,dal quale l’organizzazione trae l’opportunità e o suggerimenti per selezionare quelle caratteristiche interne che si rivelano adeguate non solo per la sopravvivenza e la continuità del gruppo,ma anche per il suo successo.
 
6. IL CLIMA ORGANIZZATIVO
Esistono vari approcci che hanno tentato di definire il clima organizzativo.
l’approccio strutturale: secondo questo approccio nella definizione di clima intervengono fattori personali-individuali e fattori ambientali-situazionali. Ma sono soprattutto questi ultimi ad avere maggior peso: l’ambiente A con le sue caratteristiche oggettive determina il clima dell’organizzazione,indipendentemente dalle persone o dalle percezioni soggettive. Il clima è una manifestazione della struttura organizzativa,ovvero un insieme di caratteristiche che descrivono un’organizzazione,che la distinguono dalle altre organizzazioni.
l’approccio percettivo: è la prospettiva che enfatizza il peso della P (persona),secondo questo approccio,la principale proprietà del clima è quella di riflettere le descrizioni che gli attori organizzativi fanno delle politiche,delle pratiche e delle condizioni esistenti nell’ambiente di lavoro. Il clima dipende dalla situazione ed è una percezione individuale degli eventi organizzativi ritenuti significativi per l’organizzazione nel suo complesso e per il proprio stare nell’ organizzazione,il clima è riflesso della situazione nella misura in cui i soggetti attribuiscono importanza agli stimoli che gli provengono dall’ambiente.
l’approccio interazionista: questo approccio come ricorda anche il termine stesso,spiega il clima come prodotto dell’interazione tra P e A , tra gli individui e l’organizzazione. Clima e struttura non sono contrapposte ma integrate,la realtà strutturale può dar vita a una realtà percettiva e a significati che si manifestano come clima e che variano da organizzazione a organizzazione.
l’approccio culturale: anche l’approccio culturale si propone come una prospettiva di sintesi:infatti, concentrare il focus attenzionale nell’interazione tra le persone non spiega come l’ambiente possa interferire nella formazione del clima organizzativo interagendo tra loro,ma il clima si forma non è indipendentedal contesto,dalla storia,dalle norma,dai valori, in altre parole dalla cultura organizzativa. Secondo Moran  e Volkwein il clima ha il compito di spiegare come i gruppi interpretano e costruiscono la realtà attraverso la cultura organizzativa,il clima in questa prospettiva fa parte della cultura e si colloca in particolare tra gli artefatti e i valori.
IL CLIMA ORGANIZZATIVO: DEFINIZIONI
La difficoltà nel dare una definizione condivisa di clima ha portato diversi ricercatori a strutturare i contributi esistenti in modo tale da fornire una visione globale sugli studi sul clima e un punto di riferimento utile per ulteriori ricerche. La ricostruzione storica dell’evoluzione degli studi di clima operata da Quaglino e Mander evidenzia passaggi diversi ma non necessariamente in contraddizione. Anche Forehand e Gilmer propongono una definizione di clima organizzativo considerandolo come un elemento proprio del sistema organizzativo,non riduttivisticamente identificato nella somma di opinioni individuali e ne evidenziano due caratteristiche fondamentali: la sua multidimensionalità e dunque il suo essere fenomeno complesso cui partecipa una pluralità di forza; la sua concretezza ovvero la sua realtà fenomenologia al di là della sua possibilità di rilevazione da parte dei ricercatori.
Il clima è considerato variabile indipendente e come tale capace di determinare il comportamento dei soggetti dell’organizzazione sulla base di 5 microvariabili: la dimensione del gruppo del lavoro,la struttura dell’autorità e delle relazioni tra gruppi e tra persone,lo stile di leadership,il numero delle componenti del sistema organizzativo e della natura delle interazioni,la direzione della meta e degli obiettivi organizzativi.
Successivamente si presenta il problema della riproblematizzazione del concetto,ovvero per il tentativo di trovare una formula modellistica soddisfacente che comprenda variabili per definizioni psicosociali,di comportamento,soggettive,accanto a variabili eminentemente strutturali.
Dunque possiamo dire che il problema  delle definizioni del clima appare complesso: infatti, si passa da quelle più generali che vedono nel clima una percezione del carattere o degli attributi essenziali di un sistema organizzativo,a quelle più focalizzate in cui il clima appare come una valutazione della qualità della relazioni interne.
CLIMA ORGANIZZATIVO E CLIMA PSICOLOGICO
Il dibattito sul clima organizzativo,riguarda anche la differenza tra clima psicologico dell’individuo e clima organizzativo.
James e Jones forniscono una distinzione precisa:
il clima organizzativo si riferisce ad attributi organizzativi ed ai loro effetti o stimoli principali;
il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali quali i processi psicologici che intervengono e attraverso cui si determinano una serie di atteggiamenti attese e comportamenti.
il clima psicologico influenza i bisogni e le motivazioni degli individui e determina comportamenti organizzativi quali l’assenteismo e le qualità del lavoro.
Inoltre il clima psicologico contribuisce insieme alla personalità individuale alla creazioni del clima ideale che rappresenta le aspettative dei soggetti per un modello di organizzazione ottimale.
CLIMA,MOTIVAZIONE E SODDISFAZIONE
Uno dei fattori che inquinano lo studio dei climi organizzativi è dato dalla confusione che impropriamente si ritrova fra il concetto di clima e il concetto di motivazione. A questo si aggiunge inoltre un’ulteriore complessità,determinata da una definizione operativa di soddisfazione.
La dimensione propriamente motivazionale ha fatto si che si utilizzassero le dimensioni del clima e della soddisfazione come indicatori del livello motivazionale. Quaglino sostiene che la relazione tra motivazione, clima e soddisfazione in realtà non esiste. Resta comunque aperto il dibattito se siano motivazione e soddisfazione a generare un buon clima o se viceversa il clima organizzativo sia determinante nelle motivazioni o nella soddisfazione. La soddisfazione fa riferimento a una dimensione valutativo/affettiva della realtà lavorativa ed è la percezione di emozioni e sentimenti filtrate attraverso il sistema individuale di valori e norme,il clima è riconducibile a percezioni organizzativo/descrittive,in quanto descrizione appunto di eventi organizzativi privi di connotazione valutativo/affettiva. Alcune ricerche sul clima hanno evidenziato attraverso alcuni item climatici il profilo di un ambiente organizzativo soddisfacente. È probabile che le relazioni tra clima e motivazione siano reciproche e bidirezionali: i vissuti individuali positivi contribuiscono a incrementare la spinta motivazionale, la quale a sua volta alimenta vissuti organizzativi positivi e dunque un clima migliore.
CLIMA, BENESSERE E SALUTE ORGANIZZATIVA
Quando si parla di salute ci si riferisce ad assenza di malattia fisica o psichica,o come vogliono i più attuali orientamenti,come una condizione positiva da mantenere costantemente, il benessere psicologico è un insieme di sentimenti ,percezioni e valutazioni che le persone fanno nei confronti della propria esistenza, del proprio ambiente familiare e dell’ambiente lavorativo. D’amato sostiene che gli studi che s interessano di clima organizzativo e benessere psicologico possono essere ricondotti a 3 filoni:
riguarda gli approfondimenti sulle relazioni tra dimensioni di benessere e clima organizzativo;
relativo agli antecedenti di clima che influenzano il benessere organizzativo;
indirizzato a selezionare quei contesti organizzativi interessati a rapidi cambiamenti.
Avallone e Paplomatas definiscono la salute organizzativa come l’insieme dei nuclei culturali,dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo,mantenendo e migliorando il benessere fisico,psicologico e sociale delle comunità lavorative.
Clima e salute organizzativa hanno dunque in comune alcuni aspetti ma cio non permette di sovrapporre o includere un fenomeno nell altro,ma restano due entità separate.

CLIMA E GIUSTIZIA ORGANIZZATIVA
Con giustizia organizzativa si intende la percezione di quanto si è tratti in modo equo dall’organizzazione
È in termini di interactional justice che la giustizia organizzativa si avvicina molto al costrutto clima organizzativo e ai termini della soddisfazione lavorativa. In alcuni casi si è tentano di dimostrare come la giustizia nelle relazioni sia un antecedente del clima,alcuni studiosi hanno ripreso l’espressione justice climate x sottolineare che nonostante la percezione della giustizia abbia origina a livello individuale,essa diventa un elemento climatico nella misura in cui la percezione dei membri viene condivisa col gruppo
CLIMA E CULTURA ORGANIZZATIVA
Storicamente,si è incominciato a parlare di clima a partire da Lewin,mentre è solo negli anni 70 che si da inizio al dibattito sulla cultura organizzativa. Le differenze tra i due termini appaiono a volte talmente sottili da renderli intercambiabili. Il clima organizzativo è un aspetto meno stabile rispetto alla cultura stessa,appare quindi transitorio e suscettibile alle variazioni, al contrario,la cultura essendo più radicata è anche più difficile da cambiare. Il clima si forma molto più velocemente,anche in assenza di una vera e propria storia, mentre la cultura viene trasmessa essendo una necessità per la sopravvivenza del gruppo. Per Spaltro il clima non è un effetto dell’organizzazione,bensi ne è parte integrante e in quanto tale contribuisce alla sua efficienza.

7. LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI
Per iniziare potremmo dire che la comunicazione non si identifica semplicemente come strumento,ma è talmente pervasiva che costituisce un modo di essere dell’uomo,l’uomo pertanto non sceglie se essere o meno comunicante,ma può scegliere intenzionalmente ogni volta se comunicare e in che modo farlo. Diverse discipline hanno tentato di proporre o imporre il loro punto di vista,si sono cosi articolate alcune scuole di pensiero tra cui:
il modello matematico interpreta la comunicazione essenzialmente come trasmissione di informazioni. Secondo cui la comunicazione è un passaggio di informazioni attraverso un canale,sotto forma di messaggio da un emittente che codifica a un ricevente che lo decodifica.
L’approccio semiotico fa riferimento alla semiotica,ovvero alla scienza che studia i segni. Secondo questa prospettiva la comunicazione passa attraverso segni. La proprietà fondamentale di ogni messaggio è di avere un senso per i soggetti che comunicano.
L’approccio pragmatico considera invece l’uso dei significanti,cioè si concentra su come i significanti sono utilizzati dai soggetti comunicanti in relazione alle diversa situazioni. la comunicazione è in questa prospettiva un processo, un’azione, un fare: Austin elaborando la teoria degli atti linguistici sosteneva che dire qualcosa è anche sempre fare qualcosa.Anche la sociologia si è occupata della comunicazione,in una prospettiva che non può che fare riferimento alla dimensione sociale e istituzionale nel quale si esplica. La comunicazione è prodotto della microsocietà e della macrosocietà.
L’approccio psicologico si è invece interessato della comunicazione come dimensione propria dell’individuo che esprime la sua identità personale e la posizione sociale di ogni soggetto.
Ci sono stati vari studi sulla comunicazione,ma il vero cambiamento avviene alla fine degli anni 60 grazie al contributo dello psicologo Watzlawick e alla scuola di Paolo Alt,che sottolineano le implicazioni interpersonali di alcuni assiomi della comunicazione:
primo assioma:è impossibile non comunicare ,cioè la comunicazione avviene anche quando non si hanno vere e proprie azioni comunicative,come il silenzio,l’inattività che sono forme di comunicazione,ossia messaggi ai quali coloro che partecipano alla comunicazione,non possono non rispondere;
secondo assioma: ogni comunicazione presenta un aspetto di contenuto ed uno di relazione cioè in ogni messaggio c è il cosiddetto aspetto di notizia o contenuto che riguarda la trasmissione delle informazioni,e c’è il cosiddetto aspetto di comando o relazione che si riferisce al tipo di rapporto che s’istaura tra gli interlocutori;
terzo assioma:la natura e la durata della relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti,cioè gli scambi di comunicazione,avvengono in maniera sequenziale,come se seguisse una punteggiatura che permette ai comunicanti di prolungare in maniera armonica la comunicazione;
quarto assioma: qualsiasi scambio di comunicazione può essere simmetrica o complementare,cioè a seconda che si basi sull’uguaglianza o sulla differenza degli interlocutori.
Da questa teoria,deriva la differenza tra comunicazione ed informazione,cioè,la comunicazione è pluridimensionale a differenza dell’informazione che c è il trasferimento di dati da un’emittente ad un ricevente e questo non implica necessariamente l’esistenza di una relazione-rapporto di coinvolgimento personale.
COMUNICAZIONE  E ORGANIZZAZIONE
Nella teoria dell’organizzazione,la comunicazione occupa un posto centrale. La comunicazione organizzativa,è una funzione del management diretta a stabilire e mantenere conoscenze e reciproche comprensioni,sia all’interno che all’esterno dell’azienda.
Troppo spesso si è abusato della comunicazione nelle organizzazioni attribuendogli un ruolo imprecisato e onnicomprensivo. Nelle organizzazioni ritroviamo almeno tre tipo di comunicazione che possiamo distribuire lungo un continuum che va dal micro al macro; la comunicazione interpersonale,la comunicazione grippale e la comunicazione organizzativa. In questa distinzione rileva il numero dei soggetti che comunicano fra loto,ma soprattutto la qualità dei soggetti,individui o entità collettive che interagiscono e stabiliscono fra loro relazioni. L’interazione consiste in un evento circoscritto nel tempo e nello spazio,la sequenza di più interazioni genera una relazione,un modello cioè che riguarda il modo con cui sono percepite e interpretate le interazioni stesse. Interazione e relazione sono in stretta interdipendenza.
 CULTURA,CLIMA E QUALITà DELLA COMUNICAZIONE
 Il problema comunicazionale si incrocia con la personalità d’impresa che dipende dalle caratteristiche dell’azienda stessa e da quelle del contesto socio-culturale nel quale è collocata.
Il modello comunicazione aziendale,fa riferimento alla differenza tra immagine ed identità aziendale:
l’immagine è la percezione della realtà organizzativa da parte del mondo interno ed esterno all’azienda;
l’identità aziendale è il modo in cui l’organizzazione vorrebbe che l’azienda fosse percepita dal mondo esterno.
Cultura aziendale e clima comunicazionale contribuiscono alla costruzione dell’identità aziendale,l’immagine aziendale non sempre è prodotto di una intenzionalità comunicativa,in essa convergono elementi intenzionali ed elementi spontanei. La comunicazione inter-viene proprio nel momento in cui si passa da un’immagine incidentale a un’immagine costruita,determinata,voluta  o addirittura simulata e finalizzata a una corporate-identity. La funziona della cultura aziendale nella morfogenesi comunicazionale risulta evidente soprattutto laddove viene a ridursi il margine di rischio di un’errata interpretazione dei messaggi. Il campo semantico che è costituito dalla cultura d’impresa e che costituisce come sistema valoriale di riferimento è la base profonda nella quale si radicano tanto le occasione comunicative quanto le elaborazioni dei singoli messaggi. Rimane il problema di definire la cultura,basti ora ricordare l’intersezione fra gli elementi e gli aspetti comunicazionali,laddove entrambi  mediano caratteristiche individuali di aggregazione umana,dove l’uno è il risultato dell’altro e viceversa.
Il clima comunicazionale è costituito da un insieme di caratteristiche perduranti circoscritte a un’area geografica definita,un fenomeno che si manifesta un modo relativamente stabile,all’interno di un determinato gruppo di individui attraverso condizioni socio-psicologiche che caratterizzano il gruppo stesso.
La comunicazione organizzativa promuove un buon clima aziendale laddove rafforza il senso di partecipazione e di coinvolgimento. Clima e cultura,vincolate attraverso la comunicazione sono due determinanti dell’assetto qualitativo delle organizzazioni e il loro peso è maggiormente sentito nella misura in cui le problematiche delle qualità sono venute diffondendosi con sempre maggior urgenza nei contesti produttivi.
STRUMENTI DI COMUNICAZIONE  fotocopie pag 18
IL RESPONSABILE DELLE COMUNICAIZONE INTERNA  fotocopie pag 19

LA PIANIFICAZIONE DELLA COMUNICAZIONE
CMUNICATION AUDIT
L’audit riveste un ruolo estremamente importante in ogni fase di piano di comunicazione poiché svolge una funzione di ricognizione e di controllo,la ricognizione consiste nel rilevamento della situazione analizzata,il controllo è il confronto della situazione rilevata con quella ideale.
La comunication audit secondo Damascelli va condotta su tre aree distinte:l’area tecnologica,l’area organizzativa,l’area della cultura aziendale. L’audit nell’area tecnologica serve per ottenere una buona conoscenza delle tecnologie comunicative disponibili e applicabili. L’audit nell’aria organizzativa analizza le procedure che possono migliorare i flussi di comunicazione interna eliminando processi burocratistici demotivanti e ritardanti l’assunzione di decisioni. L’audit della cultura ha lo scopo di verificare la consapevolezza delle politiche aziendali.
IL TELELAVORO
Il telelavoro può essere definito una modalità di lavoro decentrato che avviene sulla base di scambi d’informazione. Il telelavoro rappresenta una destrutturazione spazio-temporale poiché rimuove le condizioni lovoristiche che in precedenza prevedevano una necessaria localizzazione di grandi masse di soggetti umani e di apparati fisici,questa tipologia di lavoro sfrutta l’immaterialità di quella particolare risorsa che è l’informazione . il telelavoro dunque si distingue dal lavoro a domicilio per la sistematicità e l’esclusività del rapporto sottostante,la possibilità di svolgere le attività lavorative in forma di telelavoro dipende dalla possibilità di rendere praticabile la comunicazione a distanza,senza farle perdere di efficace. Il telelavoratore può lavorare ovunque mescolando anche il lavoro con le altre attività.

8.GRUPPO, GRUPPO DI LAVORO, LAVORO DI GRUPPO
Numerosi studiosi, ritengono che la parola gruppo sia comunemente usata in molteplici ambiti.
Sheriff (1967) afferma “che i gruppi si formano ovunque la gente si senta costretta nella stessa barca, sia essa un quartiere, una grande organizzazione”.
Una della definizioni più esaurienti, è quella classica di Lewin (1948), che afferma “che il gruppo, è qualcosa di più, o per meglio dire qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri; ha struttura propria, fini peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza, non è la somiglianza o la dissomiglianza tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza”.
Sul versante quantitativo, si può genericamente affermare che il gruppo, è un insieme numericamente ridotto di persone.
Bisogna dire, che non è tanto l’elemento quantitativo a definire il gruppo, ma piuttosto l’elemento qualitativo: essenziale per il divenire del gruppo, è il processo d’identificazione delle persone nel gruppo di cui fanno parte, cioè quanto le persone si identificano al gruppo di cui fanno parte.
Gli approcci più importanti nello studio dei gruppi sono:
Teoria di campo (di Lewin), secondo la quale il comportamento è il prodotto di campo di determinanti interdipendenti, ed è definito (il campo)”spazio sociale”;
Teoria dell’interazione (di Homans e Whyte) secondo la quale il gruppo è un sistema d’individui che interagiscono;
Teoria dei sistemi, secondo la quale il gruppo è un sistema aperto che opera equilibrando i suoi output ed input;
L’orientamento sociometrico, dove le scelte interpersonali che collegano diverse persone, formano il gruppo;
Teoria psico-analitica (di Freud), si basa sui processi motivazionali e difensivi dell’individuo e i suoi concetti di identificazione e regressione;
Orientamento psicologico generale, che insiste sull’importanza della ricezione, interpretazione, ed elaborazione delle informazioni che riguardano l’ambiente sociale in relazione alle risposte comportamentali dell’individuo;
Orientamento empiristico-statistico, che utilizza le procedure statistiche per scoprire le dinamiche di gruppo;
Orientamento dei modelli formali, che cerca di costruire dei modelli di gruppo con l’aiuto della matematica.                                                           
Uno dei concetti più usati nella letteratura scientifica sui gruppi, è quello di “dinamica di gruppo”.
Tre sono i significati che questa espressione ha assunto:
Dinamica di gruppo, intesa come “ideologia politica”, ovvero come il modo in cui i gruppi dovrebbero essere organizzati e gestiti; si evidenziano così, i concetti di leadership democratica, partecipazione dei membri alle decisioni, etc.
Dinamica di gruppo intesa come “set di tecniche” usate nei programmi di addestramento per migliorare le relazioni umane, quali osservazione e feedback dei processi di gruppo, decisioni di gruppo.
Dinamica di gruppo intesa come “campo d’indagine” per approfondire la conoscenza della natura dei gruppi, delle leggi, del loro sviluppo, delle loro interrelazioni con gli individui e con gli altri gruppi.
Quindi, secondo queste definizioni di dinamiche di gruppo, i dinamicisti affermano che:
I gruppi sono inevitabili e presenti in tutti i contesti;
Essi mobilitano forze che producono effetti per gli individui;
I gruppi possono produrre conseguenze positive e negative;
Una comprensione corretta delle dinamiche di gruppo, permette di indirizzarli verso le direzioni volute.

I metodi maggiormente utilizzati nelle ricerche sulle dinamiche di gruppo possono essere raggruppati in 5 tipologie, che sono:
Lo studio sul campo: vantaggi = grande varietà di dati e informazioni, grande applicabilità dei risultati alla vita reale, è possibile riscontrare il piccolo disturbo del gruppo; svantaggi = è difficile interpretare le correlazioni casuali, è necessario un adattamento specifico per il gruppo studiato;
L’esperimento naturale: vantaggi = i cambiamenti nel gruppo non sono programmati ma avvengono naturalmente nel corso degli eventi; svantaggi = difficoltà nel gestire le variabili, quindi c’è un minore controllo e possono essere studiate solo le dinamiche che avvengono casualmente;
L’esperimento sul campo: vantaggi = maggiore controllo sulle variabili studiate e possibilità di introdurre altre variabili per verificare le reazioni del gruppo; svantaggi = sono necessari accordi e cooperazione di tutti i membri del gruppo;
Gruppi naturali in laboratorio: vantaggi = maggiore controllo dell’ambiente, permette di investigare su variabili non facilmente create in laboratorio con gruppi artificiali; svantaggi = problemi d’interpretazione delle correlazioni;
Gruppi artificiali in laboratorio: vantaggi = massima manipolazione delle variabili, possibilità di studiare gli effetti sui gruppi rispetto a situazioni definite e non presenti nella società reale; svantaggi = non è possibile generalizzare i risultati, è adatto solo a gruppi di giovane formazione.
GRUPPO DI LAVORO, LAVORO DI GRUPPO
Il gruppo è un insieme di individui che si trovano in diretto ed immediato rapporto, esercitano reciproche azioni d’influenza, sperimentano un senso di appartenenza che li fa sentire parte del gruppo stesso, sulla spinta sia di un sentimento di auto inclusione, sia dell’attribuzione e del riconoscimento esterno.
In pratica, il gruppo è una pluralità d’interazione, invece il gruppo di lavoro è una pluralità in integrazione.
Il prodotto dell’azione del gruppo di lavoro, è il lavoro di gruppo, risultato di processi di coesione, interazione ed integrazione.
All’inizio, il legame più semplice con il gruppo, è l’interazione, cioè il singolo membro costruisce relazioni interpersonali per soddisfare i propri bisogni (membership); per giungere al livello successivo, è necessario che si realizzi l’integrazione, cioè i bisogni individuali si armonizzano con quelli del gruppo (groupship).
Quindi, il gruppo di lavoro nasce quando si passa dalla membership al groupship.
La membership e il groupship comunicano tra di loro tramite l’interdipendenza.
Un gruppo integrato è un gruppo che al suo interno ha la capacità di mediare le differenze individuali, ponendo i bisogni del gruppo come tramite per la realizzazione dell’individualità.
Il percorso che porta alla trasformazione di un gruppo in gruppo di lavoro, è un processo di costruzione di un soggetto sociale autonomo, il cui prodotto deve portare a qualcosa di migliore rispetto al lavoro individuale. 
I momenti essenziali per la costruzione di un gruppo di lavoro, sono:
Definizione dell’obiettivo;
Assunzione di un metodo (o regola di lavoro);
Chiarimento dei ruoli gruppali;
Assunzione della leadership;
Analisi dei processi comunicativi;
Considerazione della variabile clima (il clima è l’insieme delle esperienze che le varie circostanze organizzative producono sui soggetti, quindi è l’ambiente organizzativo);
Valutazione del processo di sviluppo (integrazione tra le parti).
GRUPPO E FORMAZIONE
In questo contesto, assume sempre più importanza la formazione, che non costituisce più un momento che precede l’immissione ai ruoli lavorativi, ma è uno strumento di valorizzazione delle risorse umane che riguardano la creatività, capacità di decisione e di risoluzione di problemi nuovi e complessi, e soprattutto disponibilità al cambiamento.
Si afferma così, una formazione di tipo psicosociale (cioè il soggetto ha le competenze necessarie per relazionarsi a situazioni complesse), che si basa sulla possibilità di poter riconoscere e analizzare la realtà individuale, di gruppo, organizzativa e sociale.
Per realizzare questo tipo di formazione, è necessaria l’acquisizione di competenze relative al sé, al proprio ruolo, alle modalità di relazionarsi in situazioni complesse, soprattutto quando un conflitto psicologico può tradursi in insicurezza che provoca ansia e meccanismi di difesa pericolosi per il benessere individuale ed organizzativo.
Secondo questa prospettiva, la formazione deve realizzare 3 obiettivi:
Il sapere: migliora quantitativamente le conoscenze e i concetti;
Il saper fare: inteso come accrescimento delle capacità tecniche relative allo svolgimento di un particolare compito, funzione, relative alle modalità di affrontare e risolvere i problemi legati al proprio ruolo;
Il saper essere: riguarda la sfera degli atteggiamenti ed è finalizzato ad un miglioramento ed un approfondimento delle modalità di relazionarsi con il proprio sé, con il proprio gruppo e con le varie organizzazioni sociali.
La formazione psicosociale consente di riflettere sulle dinamiche psicologiche e sociali e quindi diviene un luogo di libera espressione della soggettività degli individui del gruppo.
TECNICHE DI GRUPPO
Abbiamo una varietà di gruppi di formazione, cioè gruppi finalizzati al miglioramento dei processi relazionali, della consapevolezza di sé, del proprio agire.
Possiamo distinguere i vari gruppi in base alla loro struttura, per cui abbiamo:
T – Group (gruppo non strutturato): viene definito anche gruppo diagnostico, di base o di evoluzione. Il T – Group (Thinking group), è un metodo di formazione rivolto ad un piccolo gruppo; il suo obiettivo è quello d’introdurre un cambiamento nei soggetti che vi partecipano. Questo cambiamento deve essere rivolto all’acquisizione del proprio sé, dei rapporti interpersonali, e alla capacità di relazionarsi e di gestire un gruppo. In questo modo, assume importanza il Trainer, ovvero colui che rispetto al gruppo, ha il ruolo marginale di facilitare l’evoluzione dei partecipanti, ponendo, ad es. in risalto, comportamenti altrimenti trascurati, oppure comunicando le proprie osservazioni per stimolare il confronto. Il metodo distrutturato, si è poi evoluto in gruppo diagnostico, assumendo connotazioni terapeutiche e analitiche.
Gruppo semi – strutturato ( o gruppo di sensibilizzazione): all’interno del gruppo, si cerca di simulare la realtà della vita professionale. Queste esercitazioni servono a trasferire e rappresentare gli atteggiamenti abituali e concreti, lungo un percorso accompagnato dalla disponibilità interpretativa del trainer.
Gruppo strutturato (gruppo di addestramento): in questo gruppo, il piano di lavoro viene dettagliatamente strutturato, ossia abbiamo una situazione determinata in cui sono organizzati sia i comportamenti e gli atteggiamenti dei partecipanti, sia l’apprendimento e la risoluzione di determinati problemi. In questo contesto il trainer (o conduttore), assume un ruolo più attivo ma comunque il suo intervento deve essere finalizzato a stimolare la creatività dei soggetti coinvolti.
Case – metod: ha come obiettivo quello di affinare la capacità di analisi dei problemi concreti attraverso il confronto di un gruppo con un caso, cioè un particolare momento di vita dell’organizzazione.


Dal punto di vista psicologico, la leadership è innanzitutto un fenomeno umano che si esplica nel gruppo.
Il termine manager, spesso viene confuso o associato a quello di leader; nel campo aziendale, i 2 termini possono essere riferiti allo stesso soggetto, anche se non sempre il manager è anche leader, così come esistono leader che non svolgono ruoli manageriali.
Definiamo, quindi, il manager, come colui che si occupa di problemi organizzativi e di gestione di persone e di risorse con competenza tecnica, mentre il leader è propriamente colui che conduce il gruppo al raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
LA TEORIA DEI TRATTI ( primi del 900 fino al 1940-50)
Il primo interesse degli psicologi verso la leadership, fu orientato alla ricerca delle caratteristiche che contribuivano ad identificare il leader . Gli studi risalenti alla fine del secolo scorso, si rifanno alla great mantheory, che si basava sul presupposto innatista secondo cui il carattere individuale, è una variabile stabile, acquisito alla nascita e non mutabile nel tempo. Di conseguenza, anche la leadership era una caratteristica innata nell’individuo, per cui il riconoscimento del leader poteva avvenire senza riferimento al gruppo di appartenenza.
Fin dai primi anni del secolo, Terman rilevò le caratteristiche di base del leader, delineandone il profilo corrispondente ad un individuo di sesso maschile, di aspetto gradevole, attivo, rapido o abile nei rapporti sociali.
E’ da considerarsi che nell’epoca storica in cui tali studi vanno a svolgersi, le industrie erano organizzate secondo la concezione Tayloristica, basata su una netta separazione tra leader e gregari.
In questo contesto, quindi, la leadership viene considerata una caratteristica individuale associata al dominio e al potere, piuttosto che all’influenza che essa esplica nel gruppo.
CRITICHE:  Il principale limite di questa teoria, è quello di aver astratto il leader dal gruppo di riferimento e dal contesto.
Nonostante le critiche, “la teoria dei tratti” fu ripresa negli anni successivi e sviluppata soprattutto da Yulk (1981) il quale ha fatto una distinzione tra tratti, valori e abilità.
Tratti: per tratti, s’intendono attributi individuali che portano ad un comportamento relativamente stabile;
Valori: rappresentano opinioni interiorizzate che riguardano la sfera del giusto – sbagliato, etico – non etico, morale – immorale. Essi sono importanti perché influenzano le preferenze individuali, la percezione dei problemi e le scelte di comportamento;
Abilità: s’intendono particolari capacità e competenze nel fare qualcosa in modo efficiente: queste vengono classificate da Yulk in 3 livelli:
Abilità tecniche (conoscenze di metodi, processi e tecniche);
Abilità interpersonali (capacità di comprendere i sentimenti, le motivazioni e le opinioni);
Abilità cognitive (capacità di formulare i concetti, creatività nella risoluzione dei problemi e abilità nel riconoscere le opportunità e i potenziali problemi).

I tratti più importanti individuati da Yulk, sono:
Livello di energia e tolleranza allo stress: è particolarmente importante per i manager di alto livello che si trovano ad affrontare problemi diversificati i quali richiedono la capacità di mantenere la necessaria attenzione e calma, anche in situazioni d’incertezza e scarsa informazione.
Sicurezza di sé: necessaria per influenzare il comportamento altrui e dirigere l’azione verso il compimento del risultato. (è necessaria, però, una sicurezza moderata).
Locus of control interno: questa espressione fa riferimento alla possibilità d’intervenire negli eventi delle propria vita pur non considerando gli elementi che sfuggono al controllo. Questo permette di pianificare, ed è fonte di flessibilità, adattamento ed innovazione.
Maturità emozionale: consente l’equilibrio necessario per sviluppare maggiore controllo e stabilità.
Socialized power orientation: il potere è orientato al conseguimento di benefici comuni e questo giustifica il desiderio di guidare e influenzare il comportamento altrui.
Integrità: è un comportamento coerente con i valori condivisi, espresso da una persona che si dimostra onesta, etica e degna di fiducia.
Orientamento al risultato: riguarda il desiderio di eccellere l’orientamento al successo e propensione nell’accettare responsabilità.
STILI DI LEADERSHIP fotocopie pag 11
LA TEORIA DELLA CONTINGENZA fotocopie pag 12
LA UOVA LEADERSHIP fotocopie pag 14

10.IL NEGOZIATO NELLE ORGANIZZAZIONI
DAL CONFLITTO AL NEGOZIATO
La negoziazione può essere definita come una discussione tra due o più parti mirate a comporre interessi divergenti, capaci di generare conflitto. I negoziati sono di solito interessati al raggiungimento di un accordo,in alcuni casi la negoziazione viene utilizzata come tattica dilatoria per guadagnare tempo mentre sviluppano le strategie per battere la controparte.
Una teoria della negoziazione è dunque essenziale allo scopo di capire situazioni disparate che spaziano dal processo decisionale familiare e di coppia,fino alle relazione internazionali passando per i rapporti industriali,la coordinazione tra organizzazioni differenti e il processo decisionale intra gruppo e inter gruppo. Anche se la cultura negoziale sembra essere poco diffusa,prevale un punto di vista convergente sugli aspetti rilevanti di questo fenomeno,sia che si tratti di negoziato mono issue(mono questione) che muli issue(multi questione i principi della negoziazione a cui fare riferimento sono gli stessi per tutti. Rubin sosteneva che esistono un insieme di dinamiche comuni che sottostanno a qualsiasi forma di conflitto e di risoluzione dello stesso,ma è necessario sottolineae le distinzioni tra contesti differenti. La negoziazione e la mediazione sono le due vie migliori per risolvere la maggior parte dei conflitti,poiché sono percorsi per giungere ad accordi.
 ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO
La nascita di una situazione conflittuale dipende da tre fattori:
divergenza di interessi, Rubin e Brown affermano che il conflitto si verifica ogni qualvolta si scontrano punti di vista incompatibili;
il rancore,fa riferimento a eventi già accaduti in cui almeno una delle due parti ha subito una riduzione ingiusta dei propri interessi;
la percezione che le risorse sono scarte, Ruminati  e Pietroni osservano che la scarsità prima di essere un dato oggettivo è spesso frutto di una percezione e rappresentazione soggettiva propria delle parti in gioco.
Il conflitto verrà percepito in modo diverso a seconda delle diverse personalità coinvolte, dell’orientamento emotivo-relazionale verso la controparte,del contesto,della struttura degli interessi in gioco,delle esperienze conflittuali precedenti,della percezione degli interessi altrui, della volontà o meno di conservare la relazione con la controparte in prospettiva futura.
Secondo Greenhalgh influenzano il modo di percepire il conflitto anche altri fattori come:le questioni di principio; la valutazione delle possibili perdite; la percezione di una relazione di interdipendenza a somma zero tra le due parti in gioco;il futuro della relazione con la controparte; il livello di coesione interno della controparte;la presenza di una terza parte l’escalation del conflitto.
Ury e Smoke evidenziano quattro fattori che rivestono particolare importanza in una crisi e più in generale nel fenomeno conflittuale:
la posta in gioco è molto alta,una crisi si distingue dal normale flusso del processo decisionale per l’aspettativa di grosse perdite e dunque per l’alta posta in gioco.
disponibilità temporale ridotta,è il caso in cui si ha a disposizione poco tempo per prendere decisioni cruciali e c è urgenza di agire.
forte incertezza,i decision maker spesso riferiscono delle sensazioni nel dover affrontare una situazione di crisi e tra queste la più citata risulta essere la grande incertezza derivata dalla mancanza di informazioni importanti.
scarsa disponibilità di opzioni,una crisi può non sembrare grave finchè chi deve decidere sul suo esito sente di avere ancora delle opzioni disponibili,se la crisi è in una fase crescente normalmente le opzioni vengono percepite come scarse.
LA COMPOSIZIONE DEL CONFLITTO
Affinché il conflitto possa essere occasione di miglioramento e non implosione nel pathos è necessario che venga risolto o composto. La risoluzione del conflitto implica un cambio di mentalità che pone efficacemente fine al conflitto in questione,al contrario,la composizione del conflitto delinea un esito in cui il conflitto aperto si è concluso,sia che le motivazioni sottostanti siano state esaminate oppure n. mentre la composizione del conflitto prevede un cambiamento comportamentale,la risoluzione del conflitto prevede un cambiamento di atteggiamento.
LE RELAZIONI INTERPERSONALI PRE-NEGOZIATO
Da tempo è nota l’importanza dei risvolti relazionali nelle negoziazioni sia che le relazioni fra le parti siano temporanee ,sia se siano durevoli. Raramente accade che si possa negoziare senza che si verifichino conseguenze future, quanto meno in termini di reputazione ed immagine.
C è la necessità di due elementi per giungere ad un accorso cioè la volontà e la maturità. La relazione negoziale non può fondarsi sulla coercizione poiché la scelta d’intraprende un negoziato dipende da un iniziale volontà delle parti. La negoziazione può avere luogo quindi non solo quando entrambe le parti riconoscono la necessità di compiere uno sforzo per giungere a un accordo,superando la speranza che il solo trascorrere del tempo volga gli eventi a proprio favore, la fase che Rubin chiama maturità può essere l’esito di un processo spontaneo ,oppure di una tattica intenzionalmente scelta.
È possibile creare premesse alla fase matura del conflitto in due modi:
il primo prevede l’uso di minacce e coercizioni in modo che le parti siano portate a riflettere sulle conseguenze di mancato accordo;
il secondo prevede la presentazione alle parti di nuove opportunità di guadagno che deriverebbero dalle trattative.
LE STRATEGIE NEGOZIALI
Secondo Pruitt e Carnevale è possibile elencare sei strategie che possono essere poste in atto in una negoziazione: cotending(contesa); problem solvine (soluzione del problema); yielding(concessione); inaction(inazione); compromising(compromesso); withdrawing (rito della negoziazione).
Il contending è la strategia volta a persuadere la controparte a effettuare concessioni,oppure a cercare di resistere a tentativi dello stesso genere posti in atto dalla controparte. Al fine di rendere efficace questa strategia si possono utilizzare numerose tattiche,tra cui minacce e assunzioni di posizioni irremovibili.
Il problem solvine è una strategia orientata ad individuare soluzioni nuove che soddisfino gli obiettivi di entrambe le parti. Le tattiche di problem solvine sono: trovare un modo per aumentare le risorse oggetto della disputa; tagliare i costi ovvero rendere le concessioni della controparte meno costose; il mutuo scambio; reciproche concessioni su questioni di secondaria importanza; trovare una nuova opzione che soddisfi le due parti in gioco.
Lo yielding prevede la rinuncia ai propri obiettivi o alle proprie richieste a favore della controparte.
L’inaction è la strategia che preveder il non agire o agire il meno possibile.
Il compromising è il mero accordo intermedio tra le richieste delle parti.
Il withdrawal è una soluzione estrema in cui si abbandona il negoziato.
La scarsa conoscenza dei processi negoziali può indurre l’idea che una di queste strategie sia migliore dell’ altra.
LA NEGOZIAZIONE INTEGRATIVA E DISTRIBUTIVA
Negoziazione integrativa e distributiva sono due importanti costrutti concettuali della letteratura sul negoziato. Walton e McKersie furono i primi a distinguere la negoziazione distributiva dalla negoziazione integrativa nel contesto dei negoziati del mondo del lavoro. Essi definiscono la negoziazione distributiva come un costrutto ipotetico riferito al complesso sistema di attività, strumentali al raggiungimento dell’obiettivo di una parte quando queste sono in conflitto aperto con quelle della parte opposta. La negoziazione integrativa,dall’ altra parte,si riferisce al sistema di attività strumentali al raggiungimento degli obietti, le quali non sono in profonda contraddizione con quelle della parte opposta e che perciò con queste possono essere integrate.
 ELEMENTI DI NEGOZIAZIONE DISTRIBUTIVA
La negoziazione distributiva presuppone risorse e non espandibili,l’unico obiettivo delle parti è la spartizione delle risorse. Il negoziato distributivo è ritenuto il negoziato per eccellenza,nel senso che il caso di vittoria i guadagni possono essere molto elevati e con elevati livelli di soddisfazione derivati da aver battuto il nemico. Pruitt e Carnevale suggeriscono quattro modalità principali per ottenere risorse dalla controparte senza dover concedere nulla.
Minacciare: fare una minaccia significa prospettare una punizione per la controparte nel caso non risponda alle proprie richieste;
Pressare: consiste nell’infastidire la controparte in modo più o meno intenso ma continuo,con la promessa implicita o esplicita che la seccatura terminerà se essa cede alle richieste;
Dichiarare una posizione irremovibile: consiste nel dichiararsi determinati a considerare bloccata una posizione negoziale e a non essere disponibile a fare concessioni;
Impiegare argomentazioni persuasive: mira a manipolare le percezioni,gli atteggiamenti e le emozioni della controparte circa le questioni oggetto della trattativa.
GLI OSTACOLI DEL NEGOZIATO
Ci sono una serie di ostacoli :
OSTACOLI ISTITUZIONALI: tutti i fattori organizzativi e strutturali che impediscono la risoluzione del conflitto possono essere considerati barriere di carattere istituzionale. La comunicazione è un presupposto del buon funzionamento della relazione negoziale. Lo scambio di informazioni può essere intralciato da estinzioni di ordine burocratico o giuridico o può essere determinato dal conflitto in atto tra le parti.
Una seconda barriera di carattere strutturale è rappresentata dalle fasi intermedie del processo negoziale,frequentemente al fine di raggiungere un accordo di lungo periodo,le parti devono fare un passo indietro rispetto alle posizioni iniziali. La concessione ha come obiettivo il futuro raggiungimento di un accordo soddisfacente ma può rivelarsi pericolosa,la parte che per prima ha fatto concessioni è più vulnerabile e può diventare oggetto di un comportamento aggressivo della controparte.
La terza barriera strutturale è correlata alla presenza di diversi gruppo di interessi all’interno della relazione negoziale. Il multiparty bargaining ha complessità maggiori rispetto al classico negoziato bilaterale,un maggior numero di soggetti in gioco con diversi interessi causa problemi di gestione della situazione conflittuale che possono rimanere irrisolti.
 GLI OSTACOLI STRATEGICI
La presenza di barriere strategiche è determinata dalle scelte tattiche dei negoziatori,scelte volte al raggiungimento di un risultato soddisfacente.
Un ulteriore problema nasce dalla rivelazione degli interessi alla controparte , poiché una tattica
Improntata sulla segretezza e al sotterfugio può ostacolare la negoziazione.
GLI OSTACOLI PSICOLOGICI
Le principali barriere psicologiche che si possono incontrare durante una negoziazione sono:
l’effetto frame (rappresentazione mentale della trattativa) ; l’avversione alle perdite; i vincoli di decisioni passate; l’eccesso di fiducia; interpretazione divergente; la disponibilità delle informazioni.

12.  LO STESS LAVORATIVO
A partire da Elton Mayo, nella prima metà del 900, l’attenzione viene rivolta all’uomo applicato al lavoro e si prende in considerazione la monotonia industriale presente nei lavoratori costretti a compiere lavori ripetitivi.
Si è giunti alla constatazione che la componente psicologica può incidere sul fatto che un compito non faticoso possa generale bassi livelli di efficienza.
Cosi, dagli anni ’40 in poi si comincia a parlare di fatica soggettiva:cioè di quello stato in cui il lavoratore dimostra una caduta di efficienza dovuta ad un disagio lavorativo.
Viene fatta una distinzione tra una fatica più propriamente fisiologica che si può alleviare e estinguere con eventuali pause programmate, e uno stato di sofferenza dovuta ad un affaticamento , cioè una fatica cronica che non può essere alleviata con gli antidoti previsti per il recupero fisiologico.
Quindi affianco al tradizionale termine di fatica si aggiunge un altro termine per definire la fatica non fisica e cioè quello di carico mentale, per passare poi al termine stress lavorativo .
Ciò che caratterizza l’aspetto psicologico dello stress lavorativo non è il riferimento ad una attività (una mansione o un compito) ma è la percezione dell’individuo, del suo contesto lavorativo, dei rapporti sociali vissuti all’interno dell’organizzazione.
Gli indicatori dello stress sono sia aspetti fisiologici (attività respiratoria, cardiaca, oculare,nervosa) ma soprattutto quelli riferiti alla condizione lavorativa in termini sia “oggettivi” (tecnologie, ambiente, rapporto umano-macchina) sia “soggettivi” ( clima, soddisfazione, alimentazione).
LA SINDROME GENERALE  DI ADATTAMENTO
Il termine stress è stato utilizzato per la prima volta dal biologo Hans Seyle  che studiò questa problematica dal punto di vista clinico – medico. Egli iniettò a delle cavie di laboratorio sostanze nocive e la sindrome che si verificò presentava 3 fasi:
Fase di allarme: che si manifestava attraverso alterazioni fisiche – biologiche.
Fase di resistenza: che insorgeva dopo un’esposizione continua ad agenti nocivi; una fase che non poteva durare in eterno perché l’organismo era incapace di “adattarsi” per sempre.
L’esaurimento: l’ultimo stadio della sindrome caratterizzato  da squilibri che potevano condurre alla morte.
Seyle , quindi, notò che gli stimoli stressori rappresentati dalle sostanze nocive, turbavano l’equilibrio dell’organismo inducendolo a reagire per fronteggiare la minaccia.
Il contributo di Seyle segna l’inizio di una lunga serie di indagini relative ai fenomeni stressori.
Infatti secondo  Appley  e Tumbull , 3 sono le dimensioni fondamentali dello stress: quella biologica, psicologica e sociale.
Lo stress insorge nel momento in cui il nostro organismo viene sollecitato da stimoli esterni e non riesce ad affrontarli efficientemente; è provocato da un senso di inadeguatezza , di disagio, da uno stato d’ansia perenne e questo coinvolge soprattutto la nostra psiche.
Stressor è il termine tecnico per indicare gli accadimenti, le cause, gli agenti nocivi in grado di indurre la “sindrome generale di adattamento”.
Una serie di stressor improvvisi e inaspettati può impegnare in maniera eccessiva e far collassare le capacità adattative di un individuo.
Lazarus è tra i primi a mettere in evidenza l’importanza della condizione psicologica e cognitiva del fenomeno stress.
Secondo tale autore, lo stress psichico è dato da un particolare rapporto tra la persona e l’ambiente, un rapporto che la persona avverte come gravoso o superiore alle proprie risorse.
In particolare per Lazarus , gli elementi che producono stress nelle persone sono:
Il conflitto: viene percepito quando si verificano simultaneamente due o più azioni, o traguardi, che sono incompatibili e questo genera frustrazione.
La frustrazione: si ha perché per raggiungere un traguardo, inevitabilmente se ne escluderà un altro.
Poi successivamente Kobasa , individua una configurazione di personalità che definisce vigoria psicologica , ovvero un tipo di personalità che aiuta l’individuo a reagire positivamente allo stress.
La vigoria è caratterizzata da 3 fattori fondamentali :
- Impegno: la capacità di credere in se stessi e nelle proprie possibilità;
- Controllo: la capacità di ognuno di assumersi la piena responsabilità degli eventi della propria vita, piuttosto che attribuirli a forze esterne come il destino o il caso.
- Sfida: la tendenza al cambiamento piuttosto che alla stabilità, vedendo  nell’evento stressante un ulteriore possibilità di sviluppo personale, piuttosto che una minaccia alla tranquillità.
Secondo Kobasa coloro che mostrano di avere un alto livello di vigoria psicologica, dovrebbero rispondere allo stress in modo più positivo rispetto a coloro che hanno un basso livello di vigoria.
EUSTESS E DISTRESS
In linea generale vengono individuate 2 tipologie di stress :
-Eustress: che si riferisce ad uno stress positivo;
-Distress: che si riferisce ad uno stress negativo;
Si parla di stress positivo (eustress) quando l’uomo che vive in armonia con la sua mente e il suo corpo, viene sollecitato da stimoli esterni che sono proporzionali alla sua capacità di risposta.
L’eustress, quindi, è la risultante di quell’energia che viene utilizzata al fine di raggiungere degli obiettivi che l’individuo si pone.
Si tratta di quella dose di stress che si esaurisce nel momento in cui l’individuo raggiunge un obiettivo.
Si parla invece di stress negativo (distress) quando le condizioni di stress permangono anche in assenza di eventi stressanti, oppure quando l’organismo reagisce a stimoli di lieve entità in maniera sproporzionata. Tutto ciò fa riferimento ad uno stato di stress cronico.
IL COPING
Il termine coping fa riferimento a dei meccanismi di difesa che consentono all’individuo di gestire situazioni percepite come pericolose.
Secondo  Lazarus il coping è un processo che dipende dal contesto ed è indipendente dal risultato, nel senso che si tratta di un insieme di tentativi per controllare eventi esterni ritenuti difficili o superiori alle nostre risorse.
Alla base si questo processo c’è una valutazione soggettiva di un determinato evento.
Lazarus distingue 2 tipi di valutazione:
-Valutazione primaria: questo tipo di valutazione consente di identificare una situazione problematica che è solitamente accompagnata dal senso di disagio;
-Valutazione secondaria: si considerano le risorse disponibili per gestire il danno reale o potenziale; riguarda un dettagliata formulazione di eventuali strategie di coping (cosa bisogna fare?).
Esistono 2 funzioni di Coping fondamentali secondo Lazarus:
La prima è focalizzata sul problema: cioè è finalizzata a ridurre l’impatto negativo di un problema, attuando strategie volte al cambiamento esterno, quindi alla modificazione della situazione;
È focalizzata sull’emozione: tende a modificare l’esperienza soggettiva e i sentimenti negativi derivanti dalla situazione;
Inoltre vi sono le risorse che l’individuo ha a sua disposizione per gestire le situazioni, ovvero le “fonti di resistenza”: risorse materiali (denaro, beni e servizi) , risorse psicologiche e le risorse legate alla personalità dell’individuo.
Per affrontare lo stress lavorativo è possibile considerare alcune misure preventive e correttive che Caprara e Borgini suggeriscono dal punto di vista organizzativo:
- Selezioni di personale più accurate;
- Programmi di orientamento e aggiornamento che creino occasioni per momenti di socializzazione;
- Pianificazione dello sviluppo di carriera;
- Incontri, mete e prospettive periodicamente discusse con l’organizzazione, etc;
Lo stress lavorativo può essere positivo, che è quello che ci da la possibilità di impegnarci maggiormente, e negativo, quello che crea una flessione nelle nostre abilità lavorative e nella percezione che abbiamo di noi stessi.




13. IL BORNOUT
Freude Nberger introdusse per primo, nel 1974, il concetto di bornout per indicare “ lo stato di esaurimento, determinato dall’aver a che fare con altri in situazioni impegnative sotto il profilo emotivo”.
Christina Maslach, invece, è stata una tra i primi psicologi che si sono occupati in modo sistemico e approfondito dei vari aspetti della sindrome di burnout.
Maslach, attraverso questionari, interviste e osservazioni è riuscita a dimostrare come qualsiasi tipo di attività (e non solo le professioni sanitarie, come si diceva prima) a carattere sociale può essere oggetto d’interesse per chi studia tale sindrome.
Ella ha individuato 3 fasi nel processo di bornout:
Esaurimento emotivo;
Spersonalizzazione;
Ridotta realizzazione personale;
I vari ricercatori che si sono occupati di questa problematica hanno introdotto numerose definizioni della sindrome di bornout, ma quella più interessante è quella di “cortocircuito” ossia il bornout è simile ad un sovraccarico di energie e di richieste che inducono l’operatore ad accumulare una serie di situazioni negative incontrollabili.
Il “cortocircuito” è una conseguenza dell’interazione di molti fattori, quindi il bornout non fa riferimento ad  un evento isolato bensi ad un processo.
Molti studiosi, infatti, concordano nel considerare il bornout come un processo che si suddivide in fasi.
Chernisse (1980) individuò l’inizio di questo processo di logoramento nel momento in cui l’operatore percepisce una sensazione di esaurimento che non può essere alleviata.
La risposta a questa tensione emotiva, consiste in un cambiamento nell’atteggiamento dell’operatore verso l’utente, ossia l’operatore si distacca dall’utente per difendersi da altre fonti di stress.
I SINTOMI
La sintomatologia della sindrome del bornout è varia e dimostra la molteplicità di questa problematica, dove ai disagi di tipo fisico si affiancano disturbi di tipo psicologico.
I sintomi della sindrome di bornout sono:
- Alta resistenza ad andare a lavoro ogni giorno;
- Sensazione di fallimento;
- Rabbia e risentimento;
- Scoraggiamento e indifferenza;
- Negativismo;
- Isolamento e ritiro;
- Senso di stanchezza e esaurimento tutto il giorno;
- Guardare frequentemente l’orologio;
- Incapacità di concentrarsi o di ascoltare ciò che l’utente sta dicendo;
- Perdita di sentimenti positivi verso gli utenti;
LE CAUSE
All’origine del bornout possiamo individuare 3 elementi:
Struttura organizzativa:influisce sulla motivazione e di conseguenza sulla prestazione degli operatori; la struttura organizzativa si suddivide in 3 componenti:
Struttura di ruolo: è rappresentata dall’eccessivo carico di lavoro o dall’eccesiva responsabilità attribuita dall’operatore.
Struttura di potere:gestire all’interno dell’organizzazione gli incarichi, le responsabilità. Quando l’operatore percepisce la sua incapacità decisionale sulla situazione lavorativa manifesterà stati di tensione emotiva e di alienazione.
Struttura normativa:cioè gli obiettivi, le ideologie, le norme. A volte l’impostazione di regole per la gestione delle situazioni può creare un senso di mancata partecipazione. Sentirsi partecipi alle attività dell’organizzazione è uno dei modi migliori per essere più efficienti e produttivi.
Fattori individuali,possono essere suddivisi in: 
Tratti della personalità che condizionano la risposta del soggetto alla situazione stressante e sono:
Ansia nevrotica: la persona reagisce manifestando una eccessiva motivazione, un forte desiderio di successo, oppure al contrario diventa instabile ed emotivo.
Sindrome di tipo “A”: si manifesta con eccessiva energia diretta alla competizione, oppressività, impazienza. Gli individui che presentano tale sindrome sembrano essere occupati in una incessante lotta contro se stessi.
Luogo di controllo: l’individuo percepisce di non aver nessun controllo della situazione, anzi attribuisce esclusivamente a se stesso le cause di un insuccesso.
Flessibilità: nelle professioni d’aiuto molto spesso l’adattabilità dell’operatore può generare tensione, perché si creano situazioni conflittuali di ruolo dovute all’incapacità di dire No a determinate richieste.
L’introversione: impedisce la risoluzione di conflitti, mentre le persone estroverse le affrontano più facilmente.
Le mete di carriera: ossia gli obiettivi che gli operatori si prefiggono e che sono uno stimolo necessario che permette loro di lavorare in modo più efficace.
L’esperienza precedente: gli operatori che hanno già affrontato una situazione stressante sapranno gestire un nuovo disagio, reagire e far scattare i meccanismi di difesa.
Aspetti culturali: questo fattore è stato individuato da Cherniss e riguarda il contesto culturale e il clima socio – politico che sono rilevanti per lo sviluppo del bornout. L’appartenenza ad una comunità (in questo caso ad un’organizzazione) crea vincoli affettivi che aiutano gli individui a non sentirsi isolati; però non è scontato
che le persone con cui si lavora sono disposte a collaborare, non sempre tra i colleghi esiste un rapporto di reciproco aiuto e di collaborazione.
Attualmente, nei programmi territoriali sono state adottate delle strategie per gestire il Bornout che hanno cercato soprattutto di creare delle “situazioni preventive” in base alle conseguenze dello stress lavorativo.
STRUMENTI DI RILEVAZIONE: IL MASLACH BORNOUT  INVENTORY
Questo strumento di misurazione è stato costruito da Christina Maslach e Susan Jackson (1986) con l’intento di dimostrare l’esistenza della sindrome del bornout.
Le due ricercatrici ritenevano che il bornout fosse caratterizzato da 3 aspetti fondamentali:
Esaurimento emotivo: dovuto alla mancanza di risorse che genera l’incapacità di prestare un valido aiuto agli altri;
Depersonalizzazione: derivante da atteggiamenti di indifferenza, di nervosismo collegata all’esaurimento emotivo;
Riduzione della realizzazione personale: dovuta alla tendenza di valutare se stessi e il proprio operato negativamente;
La versione definitiva di questo questionario è composta da 22 ITEM (cioè affermazioni) riguardanti atteggiamenti e stati emotivi connessi all’attività lavorativa e inizialmente ognuno richiedeva 2 tipi di risposta riferita all’intensità e alla frequenza dei sentimenti.
Quindi i soggetti dovevano valutare le loro sensazioni attraverso una scala di intensità che andava da un punteggio minimo di zero (che corrispondeva ad un sentimento non avvertito) ad un massimo di 7 (che corrisponde ad una massima intensità).
Successivamente Maslach e Jackson nella versione definitiva hanno individuato 3 sottoscale per valutare in maniera specifica i 3 aspetti del bornout, per cui abbiamo:
La sottoscala dell’esaurimento emotivo: che comprende 9 ITEM;
La sottoscala della depersonalizzazione: che comprende 5 ITEM;
La sottoscala della realizzazione personale: che comprende 8 ITEM;
Oggi si tende a realizzare un nuovo modello il cosiddetto modello predittivo:ossia uno strumento che permetta di valutare la probabilità che un soggetto ha di raggiungere le fasi critiche di bornout.

14. IL MOBBING
Il mobbing è un’insieme di comportamenti violenti che si manifestano sul luogo di lavoro e ledono l’integrità psico – fisica della persona fino a mettere in pericolo la continuità lavorativa e degradare il clima aziendale.
Lo schema del Mobbing prevede sempre una triade di attori:
Vittima: soggetto sottoposto al mobbing;
Mobber: colui che svolge un ruolo attivo nel processo persecutorio;
Spettatori: spalleggiano indirettamente il mobbing;
Walter classifica la vittima del mobbing: è una persona che mostra dei sintomi di malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, ha un ruolo passivo all’interno del gruppo, si colpevolizza, etc.
Il mobber è l’aggressore e  Ege ritiene di poter individuare 2 tipologie:
Il mobber intenzionale: è colui che ha la piena consapevolezza dell’azione persecutoria e dei danni che può provocare; egli dispone di informazioni sufficienti per elaborare una strategia per distruggere professionalmente la vittima.
Il mobber casuale: non ha consapevolezza in quanto il suo comportamento deriva da un agire non pianificato ma da situazioni contingenti.
Per quanto riguarda gli spettatori, ossia i mobber indiretti Ege riassume tale tipologia in:
I side – mobber: che aiutano concretamente il mobber con il loro sostegno e la loro alleanza;
Gli indifferenti: che favoriscono il mobbing con il loro non – intervento contro le azioni distruttive del mobber;
Gli oppositori: cercano di aiutare la vittima, non accettano il clima di tensione e conflitto e quindi cercano una soluzione;

LE CAUSE
Le azioni mobbizzanti possono dipendere da cause soggetti, che comprendono lo stress e i conflitti interpersonali, oppure da cause oggettive che riguardano il contesto culturale nel quale le organizzazioni operano (per esempio, i livelli di competitività sociale o di aggressività).
I tipi di mobbing possibili sono:
Mobbing verticale: il superiore vittimizza il subordinato; il comportamento persecutorio viene attuato su un dipendente;
Mobbing orizzontale: l’azione di mobbing avviene tra pari, cioè tra soggetti che appartengono allo stesso livello all’interno dell’organizzazione; le motivazioni possono essere la competitività e i pregiudizi;
Mobbing aziendale: l’azione del mobbing viene iniziata da un capo nei confronti di un soggetto a lui sottoposto. A questa azione possono partecipare altri soggetti del gruppo che spalleggiano il capo per compiacenza;
Mobbing strategico: è una forma di mobbing verticale che ha come unico scopo l’eliminazione di individui dell’azienda;
Tutti gli autori concordano nel considerare il Mobbing un processo che secondo Ley mann (1993) si articola in 4 fasi:
FASE: è definita conflitto quotidiano, cioè inizialmente si presenta una conflittualità anche banale fatta di episodi, di contrasti che possono essere riferiti al mobbing per l’intenzionalità di chi conduce l’azione;
FASE: costituisce l’inizio del mobbing vero e proprio e quindi del terrore psicologico, ossia il conflitto si stabilizza;
FASE: è quella degli errori e abusi dell’amministrazione del personale, cioè quando la vittima manifesta un evidente  stato di disagio. In genere si agisce in modo da isolare il soggetto attribuendogli mansioni meno qualificanti che contribuiscono ad aggravare il suo stato già critico;
FASE: è quella dell’ esclusione dal mondo del lavoro è la fase definitiva dove la vittima decide di trasferirsi di chiedere le dimissioni o il licenziamento;
Per quanto riguarda  gli strumenti di rilevazione il questionario ideato da Leymann è quello più diffuso, il cosiddetto lipt; poi Ege lo ha adattato alla situazione italiana dividendolo in 3 aree:
Area anagrafica;
Azioni mobbizzanti;
Rilevazione sintomatologica del mobbizzato;
In Italia risulta che i lavoratori mobbizzanti sono circa il 6% e il settore terziario è quello più colpito. Per quanto riguarda la fascia d’età, la percentuale più elevata è tra i 35 e i 50 anni e vi è una maggiore predisposizione delle donne rispetto agli uomini a denunciare e a richiedere aiuto esterni.
Per quanto riguarda la prevenzione del fenomeno è necessario che l’intera organizzazione sappia distinguere le situazioni conflittuali, tali da essere indicatori di mobbing, dalle occasioni di contrasto presenti nella routin lavorativa.
L’allontanamento del soggetto mobbizzato non è risolutivo ma è più interessante l’introduzione sul luogo di lavoro di un esperto, il cosiddetto counselor, il cui intervento deve essere diretto alla soluzione dei conflitti inter – aziendali e inter – gruppali.

15. L’ERGONOMIA NELLE ORGANIZZAZIONI
L’ergonomia si è sviluppata nell’ambito delle guerre mondiali, essa è un approccio disciplinare concepito da Murrell il quale propose il termine ergonomics per definire il gruppo di lavoro che opera secondo il motto: “adattare il lavoro al lavoratore”.
Il 1961 rappresenta il momento più significativo per l’approccio ergonomico, infatti viene istituita a Stoccolma l’International Economics Association (I.E.A.) che sancì di fatto il riconoscimento ufficiale dell’ergonomia a livello internazionale.
In Italia nello stesso anno viene fondata la società italiana di ergonomia.
L’ergonomia ha come oggetto l’attività umana in relazione alle condizioni ambientali e organizzative in cui si svolge. Lo scopo è l’adattamento di tali condizioni alle esigenze dell’uomo in rapporto alle sue caratteristiche e attività.
Infatti, l’ergonomia vuole contribuire alla progettazione di servizi, ambienti di vita e di lavoro che rispettino i limiti dell’uomo e ne potenzino le capacità operative.
Quindi si pone al centro l’individuo con le sue attitudini, capacità e limitazioni.

L’ERGONOMIA COGNITIVA
Si parla di ergonomia cognitiva in seguito all’avvento della tecnologia e dell’informatizzazione, che sotto il profilo umano ha portato ad un progressivo allontanamento del lavoratore dall’oggetto lavorato.
Ciò ha portato gli studiosi a concentrarsi sull’attività cognitiva dell’uomo; nacque così l’ergonomia cognitiva che si propone di realizzare l’interazione che si instaura tra sistema cognitivo umano e gli strumenti per l’elaborazione delle informazioni (computer).
L’ergonomia ha trovato la sua più ampia applicazione nel settore della sicurezza lavorativa: infatti si è occupata di interventi volti alla rimozione dei fattori di rischio propri dell’ambiente e ha promosso lo sviluppo di una cultura della sicurezza.

16. LA QUALITA TOTALE
La definizione classica di qualità totale è quella data da Feigenbaum (1951): cioè, la qualità totale è intesa come sistema efficace per integrare gli sforzi per lo sviluppo, il mantenimento e il miglioramento della qualità dei vari gruppi in un’organizzazione, in modo da garantire la piena soddisfazione del cliente al minimo costo.
Nel Total Quality Management abbiamo vari significati di qualità quali:
Significato onnicomprensivo: per cui la parola “qualità” diventa il riferimento e l’obiettivo per qualsiasi attività svolta in azienda, comprese il marketing, progettazione, produzione, ispirazione e spedizione.
Significato allargato: cioè la qualità riguarda tutte le dimensioni, la qualità delle prestazioni dell’azienda, dell’organizzazione, dell’immagine dell’azienda sul mercato e nel mondo estreno, qualità del posto di lavoro, dei rapporti tra le persone.
Significato operativo  è rappresentato da 2 aspetti fondamentali:
La soddisfazione del cliente: è l’obiettivo primario per un’azienda che opera secondo i principi della qualità totale, infatti quello che conta è il grado di soddisfazione del cliente, poiché è al cliente che spetta la valutazione della qualità e quindi dell’adeguatezza del prodotto alle proprie necessità.
La qualità intesa come output: deriva da un’ottica ben precisa sostenuta da studiosi giapponesi i quali ritenevano che se la qualità è priorità assoluta dell’azienda, allora deve essere trattata con priorità in tutti i processi aziendali e in tutte le attività. In altri termini, la qualità dei prodotti/servizi di un’azienda non è altro che il risultato ( o la somma) della qualità dei singoli processi messi in atto per generarli. In questo modo tutte le persone, dall’operaio al direttore, hanno la loro qualità “da curare”.
Qualità negativa: fa riferimento a qualsiasi scostamento tra ciò che si attiene e ciò che si dovrebbe ottenere rispetto a quello che ci si aspettava, i tempi di consegna non rispettati, difettosità del prodotto. Lavorare in ottica di q.n. significa eliminare i problemi che derivano dalla qualità negativa.
Qualità positiva: è l’inverso di quella negativa, ossia si ha quando si riesce a soddisfare le esigenze espresse dal cliente, a soddisfare le sue attese (questo è il vero successo del Total Quality Management). In particolare la “qualità positiva” si ha quando al cliente viene dato qualcosa che non si aspettava ma che soddisfa i suoi bisogni.
Per definizione il Sistema Qualità Totale è inteso come sottosistema aziendale che raggruppa tutte le caratteristiche rilevanti ai fini della “missione qualità” e quindi le caratteristiche dell’organizzazione a livello strutturale, tecnico, manageriale, umano, sociale e del sistema dei valori, che hanno un ruolo significativo per raggiungere l’eccellenza dei risultati per il miglioramento continuo.
Total Quality Test: è un questionario nato dall’esigenza di trovare uno strumento di valutazione standardizzato per valutare i livelli di applicazione, fiducia, conoscenza della qualità all’interno dell’organizzazione. La versione definitiva del questionario presenta 18 ITEM volti a misurare, attraverso una scala Likert a 5 livelli (da fortemente in disaccordo a molto d’accordo), 3 elementi fondamentali della Qualità Totale:lo stile di leadership, la comunicazione, la motivazione dei dipendenti;
Questi elementi sono rappresentati dalla valutazione di 3 dimensioni:
Quality practice (QP): o livello di applicazione della qualità totale;
Quality faith (QF) : o fiducia espressa nella strategia della qualità;
Quality knowledge (QK): o conoscenza del concetto di qualità;

15. NUOVE FORME DI LAVORO

A partire dagli anni 80 si sono affacciate al mercato nuove forme di lavoro: il telelavoro e il lavoro interinale rappresentano le maggiori innovazioni.
Il telelavoro: nasce dalla rivoluzione elettronica ed informatica nel corso degli anni ’90. Esso è un modo di lavorare stando distanti dall’ufficio o dall’azienda (per esempio a casa propria) attraverso l’uso di sistemi informatici e telematici.
Il telelavoro permette alle persone di decidere modi e luoghi del proprio lavoro (perché non ci sono restrizioni geografiche). Questa modalità di lavoro rappresenta senz’altro una conquista in termini di flessibilità ed esso, inoltre, è conveniente soprattutto per le aziende, in quanto si ha una maggiore produttività e allo stesso tempo si riducono i costi per gli uffici e le spese di gestione (visto che si lavora fuori); e diminuiscono i costi fissi ovvero relativi al personale che viene sempre più reso precario e a termine. Bisogna essere prudenti quando si parla di telelavoro perché molto spesso può succedere che questo tipo di attività mette a rischio i rapporti con i colleghi, in quanto ci si può sentire non più componenti di una stessa squadra;
Il lavoro interinale: è molto più diffuso del telelavoro ed è stato riconosciuto dall’ordinamento italiano con al legge 196 del 1997. Per lavoro interinale si intende lavoro temporaneo che si è diffuso inizialmente come strumento di flessibilità per favorire l’entrata nel mondo del lavoro.
In base alla normativa del ’97 il lavoratore viene assunto dall’agenzia di lavoro interinale e messo a disposizione di un’impresa che ne utilizza la prestazione lavorativa, cioè il lavoratore ha un contratto di lavoro subordinato con l’agenzia e non con l’impresa dove effettivamente eroga la sua prestazione.
Abbiamo quindi 3 soggetti:
AGENZIA DI LAVORO INTERINALE;
IMPRESA;
LAVORATORE TEMPORANEO;
Le motivazioni che spingono alla scelta dl lavoro interinale sono sintetizzate da Bagdadli: egli individua 2 gruppi di lavoratori temporanei:
“temporanei / temporanei”: cioè coloro che cercano nel futuro un impiego permanente;
“temporanei / permanenti”:che non sono interessati alla stabilità lavorativa.


 R.M.